Con ricorso di urgenza (ex art. 700 c.p.c) depositato presso un Tribunale lombardo nel mese di gennaio 2011, due Clienti, i Sig.ri B., con il patrocinio dell’avv. Luigi Lucente, chiedevano che venisse autorizzata la sospensione dei pagamenti rateali mensili relativi al contratto di finanziamento concluso con un noto Istituto di Credito.
Tale scelta di incardinare un procedimento cautelare in attesa del giudizio ordinario – in ogni caso necessario – veniva dettata dall’esigenza di voler evitare ai Sig.ri B. di dover pagare l’intero importo del mutuo durante il periodo occorrente per la definizione di una causa di merito e, quindi, di evitare che il pregiudizio in danno dei consumatori venisse aggravato dai tempi notoriamente lunghi della Giustizia.
Tale scelta di incardinare un procedimento cautelare in attesa del giudizio ordinario – in ogni caso necessario – veniva dettata dall’esigenza di voler evitare ai Sig.ri B. di dover pagare l’intero importo del mutuo durante il periodo occorrente per la definizione di una causa di merito e, quindi, di evitare che il pregiudizio in danno dei consumatori venisse aggravato dai tempi notoriamente lunghi della Giustizia.
A sostegno della propria domanda, i ricorrenti riferivano di essere stati contattati, nel luglio del 2009, con la fraudolenta prospettazione della vincita di un viaggio gratuito a scopo promozionale dai rappresentanti di una Società del torinese, che li invitava, per il ritiro, presso un lussuoso hotel alle porte di Milano, dove, poi, in realtà, con l’allettante promessa e rassicurazione (verbale) di vacanze magnifiche e sottocosto in ogni parte del mondo – le cui immagini riempivano l’intera sala dell’albergo – veniva loro subdolamente proposto di sottoscrivere un “contratto di compravendita”, avente ad oggetto l’acquisto di un “certificato di associazione” che avrebbe dovuto attribuire al titolare il diritto, alienabile e trasmissibile agli eredi, di godere di una settimana di vacanza in uno dei complessi turistici residenziali facenti parte del circuito turistico che pubblicizzavano.
Il tutto fino all’anno 2053 e a fronte di un corrispettivo di € 11.900,00, importo che i Clienti effettivamente pagavano, in parte mediante un acconto – corrisposto in palese violazione dell’art. dell’art. 74 del Codice dei Consumatori (già art. 6 Decreto Legislativo 9 novembre 1998 n. 427) – per il resto, mediante contrazione di un prestito con un conosciuto Istituto di Credito italiano, indicato proprio dalla società torinese, che forniva ai Clienti i moduli per la richiesta, raccoglieva le sottoscrizioni e li consegnava alla Banca.
Dopo aver percepito il compenso, tuttavia, tale società svaniva progressivamente nel nulla fino alla completa irreperibilità e, con essa, i sogni di splendide vacanze (di cui, a distanza di più di un anno, non erano MAI riusciti ad usufruire) e i soldi dei Sig.ri B..
I malcapitati si rendevano, quindi, conto del raggiro perpetrato in loro danno e, perciò, sporgevano formale denuncia querela presso le competenti Autorità, affinché venisse avviato un procedimento contro l’Amministratore della Società torinese (attualmente, ancora in fase di indagine), ma, intanto, avevano iniziato a pagare delle somme e si erano impegnati ad onorare le rate mensili del finanziamento.
Nell’atto introduttivo del richiamato procedimento di urgenza, si argomentava sul fatto che l’esame della documentazione offerta in produzione e, in particolare, del contratto di compravendita e dei documenti allegati allo stesso, rivelava l’assoluta nullità dell’accordo stipulato fra la Società torinese e i Sig.ri B., poiché privo del requisito essenziale previsto dall’art. 1346 del Codice Civile per cui l’oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile.
Nell’intestazione, infatti, si parlava di un “Contratto di compravendita”, il cui oggetto sarebbe stato rappresentato da un certificato di associazione che avrebbe attribuito al titolare “il diritto alienabile e trasmissibile agli eredi di occupare, godere e utilizzare in modo pieno ed esclusivo, per il periodo di una settimana all’anno una suite/appartamento in uno dei complessi turistici residenziali facenti parte del “New Club Elite” in periodi settimanali ricompresi fra le settimane n. 1 e n. 52 di ogni anno solare da stabilirsi annualmente previa comunicazione alla società di gestione al prezzo e alle condizioni generali e particolari qui di seguito indicate”.
Non era, tuttavia, dato capire, neppure con la lettura delle altre clausole contrattuali, di che tipo di associazione si trattasse né quale fosse l’effettiva collocazione temporale del periodo di godimento dell’immobile/i, anch’esso/i a sua/loro volta del tutto imprecisato/i.
Ebbene, in proposito, è doveroso rilevare che la giurisprudenza, già chiamata a pronunciarsi su altre vicende analoghe a quelle dei nostri Clienti (fra le altre, Tribunale di Firenze, 02.04.2004; Tribunale di Parma sent. N. 171/2009; Tribunale Ordinario di Milano Sezione Distaccata di Rho 457/2008; Tribunale di Parma 443/2010; tribunale di Parma n. 652/2009), è concorde nel ritenere che questi spunti ed espressioni “nebulose” (per usare un eufemismo), non solo non siano sufficienti ad integrare il requisito di cui al’art. 1346 del Codice Civile, ma, anzi, determinino proprio l’effetto contrario, e cioè quello di aumentare l’incertezza circa l’oggetto del contratto, dal momento che non è affatto chiaro cosa l’acquirente abbia comprato.
Pur ritenendo assorbente quanto detto circa tale profilo di nullità, si rilevava, altresì, come l’accordo de quo non soddisfasse neppure i requisiti indicati dall’art. 71 (già art. 3 del Decreto Legislativo 98/427) del Codice dei Consumatori: a solo titolo esemplificativo, nel contratto, infatti, non vi era traccia del diritto oggetto del contratto (art. 71, comma II e art. 70, I comma, lett. a); delle informazioni relative ai singoli complessi turistici (art. 71 e art. 70, II comma); del periodo di tempo destinato al godimento del diritto (art. 71).
E se è ben vero che, espressamente, tale normativa prevede la nullità solo per l’ipotesi di carenza di forma scritta, altrettanto vero è che tale onere formale, essendo il medesimo rivolto ad assicurare all’acquirente la piena consapevolezza del proprio operato, non è rispettato anche quando nella scrittura – come nel caso di specie – non sono adoperati termini o frasi intellegibili e, comunque, indicati gli elementi ritenuti necessari dal Legislatore (Tribunale di Firenze 02.04.2004).
Senza contare che vi è un’altra ragione per ritenere nullo il contratto quando lo stesso non contiene le indicazioni prescritte dal menzionato art. 71.
Detta norma, infatti, deve considerarsi imperativa, essendo la stessa diretta a realizzare un interesse indisponibile, cioè quello del consumatore di conoscere con esattezza ciò che sta comprando e gli impegni che sta assumendo.
Di conseguenza, la nullità, in ipotesi come quella di cui si trattava di inosservanza della ridetta disposizione, discendeva dall’art. 1418 del Codice Civile.
Ancora…
Nella vicenda de qua, era doveroso tenere in debita considerazione due ulteriori aspetti:
• Innanzitutto, il fatto che vi era, nella fattispecie di cui è causa, anche una ragione per annullare il contratto a norma dell’art. 1439 del Codice Civile: i Clienti, infatti, erano stati attirati dalla Società torinese con il pretesto – falso! – di essere stati prescelti per trascorrere una vacanza gratuita di una settimana.
Una condotta già perpetrata a danno di altri consumatori e segnalata dalla Confcosumatori all’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, che, con riferimento alla denuncia inoltrata nei confronti della “V. & V. Viaggi e Vacanze S.r.l.”, in data 31.05.2001, ha affermato: “I messaggi telefonici in esame, alla luce delle dichiarazioni espresse dal segnalante, inducono il destinatario a ritenere di aver ricevuto in regalo una vacanza senza alcun tipo di onere o condizione annessa alla fruizione della stessa. I messaggi lasciano, infatti, intendere che l’assegnatario contattato telefonicamente, recandosi in una data concordata nel luogo indicato dall’operatore, potrà ritirare omaggio promesso”.
I fatti, invece, allora come nel caso qui narrato, dimostravano che la diretta e reale finalità dell’iniziativa di tali società, che è rappresentata dalla promozione della vendita di quote di multiproprietà, non risulta esplicitata dal messaggio e, quindi, è in contrasto con la normativa attualmente in vigore in materia di “pubblicità ingannevole”.
Il testo della telefonata, infatti, non riportava alcun riferimento a qualsivoglia proposta contrattuale in realtà formulata al Cliente al momento dell’incontro per il ritiro dell’omaggio.
Si era quindi, evidentemente, in presenza di una c.d. “pubblicità ingannevole”, come tale idonea ad indurre in errore un consumatore, convinto a recarsi all’appuntamento – dove, poi, ha firmato il contratto – perché credeva di andar lì solo per ritirare un premio, mentre, invece, si trattava del mezzo, fraudolento, per convincerlo ad assistere alla promozione e alla vendita di una forma di multiproprietà (c.d. Timeshare): donde la ricorrenza di un tipico caso di “dolo determinante”, causa di annullamento del contratto ex art. 1439 c.c.
• In secondo luogo, la Società torinese, nonostante fosse stata più volte sollecitata dai Clienti al fine di ottenere quanto promesso, in qualità di venditrice e di diretta referente ex art. 70 lettera l) del Codice dei Consumatori, si era completamente sottratta anche all’unico obbligo contrattuale che chiaramente si era assunta, e cioè quello di consegnare quel fantomatico pezzo di carta qualificato “Certificato di Associazione intestato all’Acquirente” di cui si è già ampiamente parlato.
Di conseguenza, persino nella denegata e non creduta ipotesi in cui si fosse voluto riconoscere una qualche validità all’accordo di cui si tratta, in ogni caso, lo stesso, in considerazione dello spirare del termine essenziale assegnato dai ricorrenti alla società torinese, si era risolto di diritto e, quindi, era privo di effetti.
Riassumendo, quindi, sotto qualsiasi profilo giuridico si considerasse la fattispecie concreta, il risultato era sempre l’inefficacia dell’accordo stipulato fra la Società torinese e i Clienti (fumus boni iuris).
Non vi era, poi, dubbio che tale effetto travolgesse anche il contratto di finanziamento dal momento che, nel caso concreto, era evidente il collegamento funzionale fra i due accordi “concepiti e voluti come avvinti teleologicamente da un nesso di reciproca interdipendenza per cui le vicende dell’uno debbano ripercuotersi sull’altro, condizionandone la validità ed efficacia” (Cass. 27 marzo 2007, n. 7424; Cfr. in tal senso anche Tribunale di Parma 171/2009) e che “in tal caso grava sul venditore, che ha ricevuto la somma mutuata, l’obbligo di restituirla al mutuante, non già sul mutuatario” (App. Milano, 13 ottobre 2004 in Giur. Merito 2005, 12 2618).
Di conseguenza i consumatori avevano diritto, per effetto dell’inefficacia, di ottenere la restituzione di quanto pagato alla finanziaria e, in sede tutelare, di ottenere l’autorizzazione a sospendere i pagamenti “a venire” per limitare il già grave pregiudizio patito (periculum in mora).
L’unica controparte che si costituiva in giudizio era proprio l’Istituto di credito, il quale, nel proprio atto, si difendeva con un unico argomento, che, qui di seguito si trascrive:
“I due contratti richiamati in narrativa non hanno alcun legame tra di loro e, ad un attento esame, risultano ben distinti ed autonomi, sia sotto il profilo formale che quello sostanziale.
Tali contratti disciplinano invero fattispecie del tutto diverse.
In particolare quello di “prestito personale e Carta di Credito” stipulato con [ l’Istituto di credito] non contiene la benché minima indicazione della causa della richiesta del prestito, nel senso che il cliente avrebbe potuto utilizzare l’importo ricevuto per qualsiasi finalità. […]
Peraltro, quand’anche controparte dimostrasse di aver utilizzato le somme effettivamente per il saldo della [Società torinese], nulla cambierebbe atteso che i negozi giuridici sono del tutto distinti ed autonomi e l’ipotetico vizio di uno non inficia l’efficacia del’altro”.
A conclusione del processo il Giudice ha così motivato il provvedimento di accoglimento del ricorso dei Clienti:
“Ferma la totale genericità del contratto nell’individuazione dei beni immobili oggetto del diritto di godimento derivante dal certificato di associazione e la conseguente radicale nullità dello stesso ex artt. 70-71 del Codice del Consumo, dalle missive prodotte dai ricorrenti e dall’atto di denuncia-querela presentato in data 15.12.2010 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Monza emerge che la [Società torinese] si è resa totalmente inadempiente agli obblighi contrattuali assunti con il contratto di compravendita, pacificamente riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 69 D. lgs. N. 205/2006 (c.d. multiproprietà).
Le domande di nullità e risoluzione prospettate dai ricorrenti sono pertanto senz’altro supportate dal fumus boni iuris, emergendo, per tabulas, che la [Società torinese] dopo aver incamerato il corrispettivo, si è resa irreperibile, abbandonando la propria sede legale, senza comunicare in Camera di Commercio la nuova sede e ha totalmente omesso di riscontrare le richieste di adempimento dei [Clienti].
Totalmente infondate appaiono le contestazioni sollevate dalla Banca in merito all’autonomia dei due rapporti contrattuali (vendita-finanziamento).
Dalla documentazione contrattuale in atti emerge chiaramente che il prestito dalla stessa concesso ai ricorrenti era finalizzato all’acquisto da parte degli stessi del prodotto “turistico” della [Società torinese].
Il collegamento funzionale tra i due rapporti è espressamente indicato sia nelle condizioni generali del contratto di compravendita, nelle quali si prevede la facoltà della [Società torinese] di concedere al compratore (consumatore) di pagare il prezzo tramite società finanziaria dalla medesima indicata (art. 3), che nel modulo di richiesta di prestito, riportante quale causale finanziamento “VIAGGI”.
E’ quindi evidente che il prestito per cui è causa è stato erogato dalla Banca in forza di un accordo esistente tra la stessa e la parte venditrice [Società torinese], ipotesi per la quale il Codice del Consumo, con riferimento al prodotto qui esaminato, contempla una specifica ipotesi di collegamento contrattuale (vs. art. 77 D. lgs. 205/2006).
Quanto all’incidenza dell’inadempimento del contratto principale sulle sorti del collegato contratto di finanziamento, la fattispecie risulta attualmente disciplinata dall’art. 125 – quinquies del T.U.B., introdotto dal D. lgs. N. 141/2010 in attuazione della Direttiva CE 2008/48, a mente del quale “nei contratti di credito collegati, in caso di inadempimento da parte del fornitore dei beni o dei servizi, il consumatore, dopo aver inutilmente effettuato la costituzione in mora del fornitore, ha diritto alla risoluzione del contratto di credito, se con riferimento al contratto di fornitura di beni o servizi ricorrono le condizioni di cui all’art. 1455 c.c. . La risoluzione del contratto di credito non comporta l’obbligo del consumatore di rimborsare al finanziatore l’importo che sia stato già versato al fornitore dei beni o dei servizi. Il finanziatore ha il diritto di ripetere detto importo nei confronti del fornitore stesso”.
Detta disposizione, costituendo l’attuazione di una direttiva comunitaria già vigente all’epoca della conclusionale del contratto per cui è causa, deve ritenersi applicabile anche all’odierna controversia.
Ciò non tanto in ragione della sua diretta efficacia retroattiva, quanto piuttosto in forza del principio generale per cui il giudice interno è tenuto ad interpretare la normativa in senso conforme al diritto comunitario, disapplicandola in caso di riscontrata difformità e riconoscendo allo stesso prevalenza.
Va al riguardo rilevato che la pregressa previsione normativa (art. 42 del codice del Consumo), abrogata dal d. lgs. 141/2010, sanciva la responsabilità sussidiaria del finanziatore in caso d’inadempimento del fornitore, solo in presenza di un accordo di esclusiva, lasciando così ampi margini per l’elusione delle sue finalità di tutela.
La nuova direttiva comunitaria già dal 2008 aveva rivisto il relativo regime, generalizzando la corresponsabilità del finanziatore in tutti i casi di credito al consumo collegati a contratti di fornitura in base agli accordi assunti tra finanziatore e fornitore, sicché a sopravvenuta normativa interna non ha fatto che dare attuazione a detto principio.
Va in ogni caso rilevato che anche a voler escludere che tale novellata disciplina trovi applicazione nel caso di specie, in difetto di specifiche allegazioni di segno contrario, deve presumersi che la Banca, essendo stata indicata dalla stessa [Società torinese], avesse in corso con la stessa accordi in esclusiva per la concessione di credito relativa ai prodotti dalla stessa commercializzati.
In accoglimento del ricorso, il tribunale ritiene pertanto di autorizzare i ricorrenti a sospendere con effetto immediato il pagamento dei ratei di rimborso del prestito ancora in scadenza”.
Naturalmente, l’Istituto di Credito non ha accolto di buon grado tale decisione e, così, ha proposto reclamo ai sensi di legge contestando la sussistenza del collegamento funzionale accertato dal primo Giudice, reclamo che il Tribunale in composizione collegiale – onestamente davvero contro ogni nostra previsione – ha accolto.
Molti lettori si potranno chiedere che senso può avere scrivere di un caso che, almeno fino a questo momento, non ha avuto un epilogo favorevole per i Ns. Clienti.
Orbene, la ragione è molto semplice e si spiega con la necessità, che è sempre stata il principio ispiratore di questo studio legale e alimenta la passione di chi pratica questo mestiere, di raccontare sempre la nostra verità dei fatti, continuando a combattere per difenderla, anche quando le “circostanze”cercano di piegarci.
Perché anche chi non si occupa di diritto, e vive le aule di Tribunale solo attraverso i mass media, conosca anche questi scorci di vita comune.
Proprio in virtù di tale rivendicata trasparenza si ritiene, quindi, doveroso, riportare le motivazioni che il Tribunale ha addotto per concludere che i consumatori, pur avendo ragione circa l’effettiva nullità e/o risoluzione del contratto con la Società di Viaggi, dovranno continuare a pagare “a vuoto” la Banca.
Si legge, in proposito, nel provvedimento di cui si tratta: “[…] premettendosi ulteriormente che nessuna contestazione è mai sorta fra le parti in relazione all’effettiva fondatezza degli assunti (nullità e/o risoluzione) avanzati dagli odierni reclamati nei riguardi del contratto c.d. principale, ossia quello stipulato con (OMISSIS la Società di Viaggi) ciò che non convince è , a ben vedere, l’effettiva sussistenza del collegamento funzionale tra tale ultimo contratto e quello stipulato dai consumatori con l’istituto di credito reclamante […] . In sostanza se, da un lato, può legittimamente sostenersi che il legislatore abbia legittimamente considerato il ricorso al credito da parte del consumatore per l’acquisto di beni un’ipotesi tipica di collegamento negoziale, attribuendo alla parte debole tutelata un effetto non solo caducatorio, ma anche recuperatorio immediato e diretto nei confronti del terzo, dall’altro non può del pari non rilevarsi che, ai fini dell’effettiva sussistenza del collegamento fra i due contratti, non è certamente sufficiente, come ritenuto dal primo giudicante, la semplice facoltà della controparte espressamente prevista in contratto di scegliere la società finanziaria ovvero l’indicazione, nella causale del finanziamento, di una generica – quanto indefinita – parola “viaggi”. Indici rivelatori a tal fine avrebbero semmai essere individuati, a mero titolo esemplificativo, nella contestuale stipulazione, espressamente indicata nel contratto, del relativo finanziamento, all’uopo utilizzando moduli già in possesso del venditore, ovvero nell’espressa – ma la contempo precisa – indicazione nella proposta di finanziamento, del contratto di acquisto sopra indicato (“contratto di compravendita del certificato di associazione rilasciato dall’Entità Fiduciaria New Club Elite Limited”) o, quantomeno di una terminologia più specificatamente idoena ad individuare il contratto in oggetto. […] In definitiva, la semplice indicazione del termine “viaggi” nella causale di finanziamento oltremodo generica, non consente certamente di associare, con ragionevole certezza, la concessione del finanziamento da parte di (OMISSIS Istituto di credito) al contratto concluso con (OMISSIS Società di Viaggi) piuttosto che ad un qualsiasi altro contratto stipulato con terzi, di modo che tra i due non può ritenersi sussistente alcun serio collegamento negoziale con l’ulteriore conseguenza che gli eventuali vizi presenti nel secondo non possono automaticamente estendersi al primo. Pertanto l’ordinanza del primo giudicante deve essere integralmente revocata.”
È, tuttavia, doveroso precisare, per amor di completezza, che la causale di finanziamento sopra richiamata è stata inserita proprio dalla Società torinese, o, forse, chi lo sa, dalla Banca, ma, certamente, non dai Sig.ri B. e, ancora, che, in ogni caso, questa difesa aveva dedotto ben più di quanto l’Ecc.mo Collegio riferisce ed, anzi, proprio ciò che quest’ultimo suggerisce quali “indici rivelatori” di un collegamento fra il contratto della Società torinese ed il contratto di mutuo concesso dalla Banca, e cioè:
– la contestualità del contratto di compravendita e di mutuo;
– il fatto che i dati indicati alla voce “definizione di pagamento” della bolletta di consegna della Società di viaggi, indicavano i dettagli del finanziamento, e, così, l’importo erogato di € 11.500,00, nonché il numero di 84 ratei di mutuo;
– che tali dati corrispondevano esattamente a quelli della richiesta di finanziamento inoltrato all’Istituto di credito;
– che, contestualmente, alla ricezione della somma finanziata (10.08.2009) veniva saldato l’importo di € 11.500,00 in favore della Società di viaggi (12.08.2009), come si evince dall’estratto conto prodotto agli atti del Tribunale;
– che nella richiesta di mutuo diretta alla Banca e di cui sono in possesso i consumatori mancava qualsivoglia timbro e/o firma dell’Istituto di credito, che attestasse un rapporto diretto fra gli odierni reclamati e la banca;
– e, non da ultimo, che la modalità di pagamento concessa dalla Società di Viaggi ai Consumatori è stata effettivamente quella di un finanziamento (Cfr. Contratto di puntuazione del 25.07.2009), che non può che essere stato erogato da un Ente indicato dalla Società di Viaggi, in considerazione del fatto che, in base ad una precisa clausola contrattuale, e cioè la n. 3 per cui la Società di Viaggi “si riserva la facoltà di consentire il pagamento del prezzo a mezzo di società finanziaria da Lei indicata, con relativi oneri a carico dell’Acquirente”, questa era la condizione cui era subordinata l’accettazione di tale forma di pagamento.
Dati che trovavano la propria fonte nei documenti agli atti, ma che il Tribunale adito – a nostro modesto avviso- avrebbe potuto anche verificare, ad esempio, sentendo a sommarie informazioni quei testimoni che, pur indicati, non solo non sono stati sentiti, ma neppure presi in considerazione.
I Sig.ri B., fermamente convinti delle proprie ragioni, non intendono fermarsi qui.
Perciò, nonostante il codice di procedura non preveda la possibilità di impugnare il citato provvedimento emesso a conclusione del reclamo, hanno deciso di non voler subire in silenzio e, pertanto, attualmente, si stanno valutando tutte le possibilità percorribili per ottenere tutela.
Sarà Nostra cura, pertanto, tenerVi aggiornati sul prosieguo di questa vicenda, che, si badi bene, non vuole essere né diventare lo spunto per sterili polemiche, ma, diversamente, è la testimonianza di due consumatori che pretendono tutela.