Il tema delicato del consenso alle cure del paziente interdetto è divenuto di scottante attualità a seguito della nota triste vicenda di Eluana Englaro.
Dalla sentenza che ha deciso il caso Englaro n. 21748 del 16 ottobre 2007 e dalla successiva giurisprudenza di legittimità e di merito, è disceso che il legale rappresentante ha il potere di compiere atti di cura in favore dell’incapace e, quindi, di esprimere, per conto di quest’ultimo, il consenso ai trattamenti sanitari.
Il tutore – si legge nella sentenza citata – è investito della legittima posizione di soggetto interlocutore dei medici nel decidere i trattamenti da praticare in favore dell’incapace. Questo principio trova origine e discende da una serie di disposizioni.
Al riguardo, citiamo ad esempio l’art. 6, comma 3 della Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina secondo cui <<Allorquando, secondo la legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di dare consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge>>.
Occorre verificare se e come detta conclusione si concili con l’istituto dei cosiddetti “atti personalissimi”.
Gli atti racchiusi in questa categoria devono essere posti in essere esclusivamente dal titolare della situazione giuridica. Se compiuti da altri sarebbero nulli. Nessuno, infatti, può essere sostituito da un terzo, ad esempio, nella decisione di disporre per testamento, di contrarre matrimonio, di donare, oppure nella separazione personale o nel riconoscimento di figli naturali.
La giurisprudenza della Suprema Corte ha recepito questa teoria, affermando che <<la rappresentanza dell’interdetto per infermità di mente da parte del tutore in tutti gli atti civili non comprende i c.d. atti personalissimi>>.
Con specifico riferimento al campo dei trattamenti sanitari cosiddetti life-sustaining in favore dell’interdetto, la Corte di legittimità ha richiamato tale orientamento, ribadendo la <<non configurabilità, in mancanza di specifiche disposizioni, di un generale potere di rappresentanza in capo al tutore con riferimento ai cc.dd. atti personalissimi>>.
Rispetto a questa impostazione ( che come diremo oltre è condivisa dal Giudice tutelare parmense nel decreto che passeremo in esame), la “sentenza Englaro” segna un momento di significativa discontinuità. In tale sentenza si afferma, infatti, che il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace non è di ostacolo all’esercizio di esso da parte del tutore in via rappresentativa. Il potere di rappresentanza del tutore, tuttavia, è sottoposto <<ad un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace e, nella ricerca del best interest, deve decidere non “al posto né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace; quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche>>.
In questo quadro – che ha suscitato numerosi dibattiti e ha diviso l’opinione pubblica – si inserisce un provvedimento del Tribunale Ordinario di Parma – Giudice Tutelare Agostini datato 07.06.2011 che è frutto secondo i commentatori di una interpretazione troppo severa della teoria dei c.d. “atti personalissimi” e fa discutere per la sua pratica realizzabilità.
Va premesso, però, che il Giudice preliminarmente rileva che dal certificato sanitario allegato non è evidenziato alcun elemento idoneo a valutare il rapporto rischio/benefici dell’intervento chirurgico, valutazione peraltro sottratta a questo Giudice Tutelare; che, nel caso di specie, non emerge dal certificato medico prodotto che l’intervento chirurgico programmato è indispensabile ad evitare eventuali conseguenze gravi; e ritenuto, pertanto, che non sussistano gli estremi dello stato di necessità…
Il Giudice di Parma così decide: “Invita il tutore ad acquisire preliminarmente una valutazione neuro-psichiatrica relativa alla capacità cognitiva ed alla capacità di autodeterminazione di G F, valutazione che ben può essere compiuta con modalità extraospedaliere, onde appurare se sia in grado di manifestare un valido consenso o dissenso in relazione all’intervento chirurgico di cui in ricorso;
Laddove risulti che lo stato mentale di G F precluda la manifestazione di un valido consenso o dissenso in relazione all’intervento chirurgico di cui in ricorso, invita il Tutore a comunicare all’operatore chirurgico la volontà presunta del Tutelato a ricevere la prestazione sanitaria, nel caso in cui dalle circostanze relative alla pregressa vita dell’interessato non emergano indizi gravi seri e concordanti che inducano a ritenere che l’incapace avrebbe rifiutato l’intervento.
Dichiara immediatamente esecutivo il presente decreto …. Omissis …”.
Quali le perplessità?
Fra tutte: può un interdetto (che per definizione è in condizioni di abituale infermità di mente e quindi incapace di provvedere ai propri interessi) esprimere un valido consenso?
E cioè può autodeterminarsi?
Probabilmente NO. Diversamente dovrebbe essere revocata l’interdizione!
La materia in ogni caso è molto delicata.
E’ da più parti auspicato un intervento chiarificatore del Legislatore.