Assolta psichiatra accusata di essere responsabile dell’efferato omicidio commesso da un uomo affetto da disturbi psichici ai danni dei genitori
Nell’inverno del 2014 una psichiatra si rivolge allo Studio Legale Lucente dopo aver ricevuto un atto in cui la si accusava di non aver colposamente ricoverato un uomo che di lì a poco avrebbe ucciso i suoi genitori.
La vicenda prende le mosse da un tragico fatto di cronaca nera avvenuto nell’hinterland milanese. Un uomo affetto da Schizofrenia Paranoidea Cronica che era stato dimesso dall’ospedale due volte a distanza di poche ore, una volta tornato a casa commetteva il feroce omicidio di entrambi i genitori; un reato sanguinolento che scosse un’intera comunità, e che trovò nella propria agghiacciante modalità di esecuzione una cassa di risonanza mediatica coinvolgente diversi tra i mass-media sia locali che nazionali.
Erano le ore 20.40 di una sera d’inverno, quando l’uomo poco più che quarantenne si recava insieme alla madre al Pronto Soccorso a causa di episodi di agitazione accompagnati da riduzione dell’appetito ed insonnia. In ospedale l’uomo veniva subito sottoposto a visita dalla psichiatra di turno, che al colloquio valutava il paziente come “vigile, lucido, sufficientemente orientato e accessibile al dialogo”, seppur “non in grado di descrivere i propri contenuti ideici e il proprio malessere”. Dopo aver eseguito gli accertamenti del caso e praticato una terapia farmacologica, il sanitario riteneva di poter dimettere il paziente, riaffidandolo alle mani del medico curante che lo seguiva per tale patologia fin dal lontano 1992.
Nonostante le recenti dimissioni, però, la mattina del giorno seguente l’uomo si presentava di nuovo al Pronto Soccorso, questa volta accompagnato da entrambi i genitori, dove veniva sottoposto a visita psichiatrica dalla medesima dottoressa che non aveva ancora terminato il proprio turno in ospedale.
Anche in tal caso, durante il consulto la psichiatra non poteva che constatare il semplice persistere della riacutizzazione dei sintomi cronici della patologia, in un soggetto che comunque si presentava collaborante e senza manifesta ansia obiettivabile, né agitazione. In tal caso si manifestava un “vissuto di angoscia correlato a idee a stampo paranoideo e relative dispercezioni acustiche [sentire delle voci nella testa], ma senza presentare alcuna ideazione autolesiva/anticonservativa, né franco scompenso”. Per questi motivi, il medico, valutato lo stato del paziente, preso atto degli elementi clinici e anamnestici, e considerata ogni altra circostanza, non riteneva anche in questo caso vi fossero gli estremi per il ricovero del paziente, e pertanto, ne disponeva nuovamente le dimissioni.
Nulla, a questo punto, pare avrebbe potuto far presagire al sanitario l’escalation di violenza che da lì a qualche ora si sarebbe verificata: l’insorgere di un’improvvisa intuizione delirante la sera stessa delle ultime dimissioni portava il figlio a ritenere che fosse in atto contro di lui un complotto da parte dei genitori, e di conseguenza, preda di tale impulso, questo giungeva alla conclusione di doversi immediatamente difendere da costoro e iniziava a colpirli con pesanti oggetti trovati all’interno dell’abitazione.
Quella stessa sera una chiamata raggiungeva le Forze dell’Ordine e dall’altra parte della cornetta la voce di un uomo chiedeva l’immediato intervento dei Carabinieri, pronunciando le seguenti parole: “i miei genitori mi volevano ammazzare e li ho ammazzati io”. Successivamente la voce al telefono si interrompeva, e si udiva in sottofondo una serie di colpi provocati da un qualche corpo contundente, chiusa dal rumore sordo di un oggetto di vetro che, cadendo, andava in frantumi.
Giunti presso il domicilio, la scena che i militari si trovavano davanti era raccapricciante: i corpi di entrambi i genitori giacevano al suolo, esanimi, oramai privi di vita; il corpo del padre era stato colpito più e più volte alla testa con un pesante posacenere; lì vicino, il cadavere della madre allo stesso modo martoriato sotto i colpi di un oggetto contundente; infine, accanto a quest’ultimo, l’inquietante visione dei cocci insanguinati di un portafiori in vetro, che facevano sospettare agli inquirenti che il duplice omicidio potesse essersi consumato addirittura mentre l’omicida si trovava ancora al telefono con la centrale operativa.
Da lì l’arresto immediato dell’individuo, affidato la notte stessa nelle mani della Giustizia, e sottoposto nei giorni seguenti a una serie di valutazioni psichiatriche post-evento. L’omicida dopo un rapido processo veniva accusato di essere l’autore del duplice delitto e, poiché al momento dei fatti ritenuto incapace di intendere e volere, veniva sottoposto alla misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per una durata non inferiore ad anni dieci.
La vicenda, tuttavia, non si esauriva qui!
Infatti, a circa un anno di distanza dal drammatico accadimento, i parenti delle vittime provvedevano a notificare un atto di citazione in giudizio sia alla dottoressa che aveva visitato il paziente, sia alla struttura sanitaria presso la quale questa aveva operato, invitando entrambe a comparire davanti al Tribunale di Monza. Nel proprio atto costoro sostenevano che la condotta parricida del soggetto coinvolto non poteva che essere l’inevitabile conseguenza dell’omissione della psichiatra dell’ospedale, la quale a loro dire avrebbe potuto e dovuto impedire il duplice omicidio trattenendo il soggetto all’interno del nosocomio. Nei confronti delle due convenute, quindi, i parenti chiedevano al Giudice la condanna al risarcimento dei danni personalmente patiti a causa della rottura del legame di parentela che intercorreva tra ciascuno di loro e le vittime.
Fin da subito la dottoressa provvedeva ad incaricare l’Avv. Luigi Lucente e l’Avv. Orietta Grazioli per farsi rappresentare e difendere nel suddetto procedimento. Prontamente i legali indicavano la figura del noto psichiatra forense Prof. Renato Ariatti quale Consulente Tecnico di Parte da cui farsi affiancare e coadiuvare nell’impostazione della tesi difensiva.
Prima di tutto i procuratori evidenziavano come l’unica prospettiva corretta per giudicare l’operato della psichiatra fosse quella di “indossare i suoi panni”; di considerare, cioè, quale fosse la condizione clinica del paziente de visu obiettivabile nel momento in cui era stato visitato in Pronto Soccorso; quale fosse, in base alla ridetta evidenza clinica, la cura adeguata che il sanitario era tenuto ad approntare; e verificare, dunque, se l’evento aggressivo posto in essere dal paziente fosse ex ante prevedibile e/o riconducibile al momento del consulto psichiatrico.
Operando in tal guisa, sostenevano i legali, si poteva constatare che al momento degli accessi al Pronto Soccorso la sintomatologia presentata dal paziente non era certo compatibile con una fase di destabilizzazione acuta, poiché nulla si evidenziava in termini di turbe comportamentali, né venivano esternati propositi di carattere aggressivo. Inoltre, la dottoressa trovava davanti a sé un uomo che mai in anamnesi, né in quella attuale né in quella remota, aveva manifestato intenzionalità eteroaggressive, né altri fattori dinamici individuati dalla letteratura medica come importanti per una valutazione e gestione del rischio violenza, quali “comportamento ostile, scarso controllo degli impulsi, uso di alcol e/o abuso di droga, mancanza di insight, punteggi elevati ai sintomi psicotici, e non aderenza alle terapie”. E senza considerare il fatto che, a detta dei genitori che lo accompagnavano, già in passato erano emersi comportamenti analoghi, tuttavia mai sfociati in violenza e sempre risolti tramite correzioni dei protocolli farmacologici. Difatti, come risultava dalle carte, in molti anni il soggetto non aveva avuto mai necessità di essere ricoverato per fronteggiare i propri disagi e le proprie riacutizzazioni sintomatologiche. Anzi, in un’unica datata circostanza risalente a più di dieci anni prima il paziente era stato accolto in reparto, ma la degenza era esitata in un’esperienza negativa poiché si era spaventato e angosciato, con auto-dimissione contro il parere medico dopo sole ventiquattrore.
A tutto ciò, poi, concludevano gli Avv.ti Lucente e Grazioli, si aggiunga che – a riconferma dell’imprevedibilità del fatto – al momento degli ingressi in Pronto Soccorso emergeva non solo l’assenza di alcun coinvolgimento dei genitori nel delirio o nei fenomeni allucinatori del figlio, ma anche, al contrario, la rappresentazione dei genitori come unica garanzia di protezione e sicurezza agli occhi del soggetto. Nel caso in questione, infatti, al momento degli accertamenti non vi era alcun indicatore di conflittualità familiare, né della possibilità che la coesione familiare che aveva da sempre contraddistinto il rapporto del figlio con il padre e la madre potesse lacerarsi. E a dimostrazione di ciò il fatto che durante il primo accesso il paziente richiedeva espressamente la presenza della madre, spiegando di voler che ella non si allontanasse, e allo stesso modo, la mattina seguente, sempre lo stesso rispondeva al sanitario di volere accanto i genitori durante lo svolgimento del consulto psichiatrico.
Inoltre, a supporto probatorio della tesi difensiva del sanitario, gli avvocati fornivano al Tribunale alcune dichiarazioni rilasciate nell’immediatezza dei fatti da parte del sindaco della cittadina dove era avvenuto l’efferato omicidio, nonché da parte di persone che conoscevano il ragazzo e la sua particolare situazione, i quali tuttavia confermavano si trattasse comunque di “un soggetto tranquillo”, che non aveva mai dato “segnali di pericolo”, tant’è che, spiegavano, fino a quel giorno “nulla poteva lasciar presagire una cosa del genere”.
Orbene, a fronte di tutto ciò risulta evidente come l’evento delittuoso non poteva essere in alcun modo previsto dalla dottoressa, la quale correttamente valutava le rilevanze anamnestiche e diagnostiche e, non essendo nella condizione di poter prevedere il tragico evento, riteneva di dimettere il paziente. D’altronde, chiosavano i difensori, questo è l’input dato anche dall’attuale normativa di legge (L. n. 833 del 23 dicembre 1978) che ha determinato una svolta nella cura delle malattie mentali, essendo caduta la vecchia equazione “malattia mentale = pericolosità” in favore di un trattamento sanitario obbligatorio (cd. TSO) che si colloca in una prospettiva esclusivamente terapeutico-sanitaria e non più in mere ragioni di contenimento e di sorveglianza di soggetti affetti da malattie psichiche.
Nel prosieguo del processo, il Consulente Tecnico nominato appositamente dal Giudice depositava un elaborato tecnico sulla vicenda, nel quale avvalorava la tesi difensiva sostenuta dagli Avv.ti Lucente e Grazioli ponendo con forza l’attenzione sulla necessità di una valutazione allo status quo ante rispetto al duplice omicidio: “per accertare se vi fossero elementi per poter diagnosticare uno scompenso psicotico acuto bisogna rifarsi agli unici elementi oggettivi che erano in possesso della dottoressa al momento dell’accesso in Pronto Soccorso e non, chiaramente, da ciò che è avvenuto dopo, e sono la storia clinica e lo stato clinico del paziente. […] La storia clinica del paziente delinea un paziente affetto da psicosi cronica, seguito da vent’anni da uno specialista privato, con una terapia appropriata ad un quadro psicotico, ma ad un dosaggio basso che fa pensare ad una stabilizzazione del quadro più su un versante deficitario residuale che ad una patologia francamente produttiva. Altro elemento che non indica o predice un grave scompenso psicotico è che il paziente in ventidue anni di malattia non è mai stato ricoverato in un reparto di psichiatria, se non per una volta per poche ore, pur essendosi recato più volte in pronto soccorso. […] Lo stato clinico è quello di un paziente che presenta da circa una settimana una sintomatologia ingravescente, ma non specifica … non vengono descritte e quindi verosimilmente non sono presenti alterazioni comportamentali o agitazione psicomotoria … non è rilevata, né riferita, nessuna conflittualità con i familiari che accompagnano il paziente … Non sono riferiti pregressi episodi di aggressività etero-diretta da parte del paziente, né l’uso di sostanze stupefacenti, né il paziente mostra atteggiamenti ostili o disforia durante il colloquio”.
Per questi motivi il Consulente concludeva che allo stato dei fatti “non vi erano né al momento della prima né al momento della seconda valutazione elementi che facessero propendere per la necessità di un ricovero del paziente”. In applicazione della normativa vigente e nel rispetto dei protocolli e delle indicazioni della letteratura medica di settore, infatti, il semplice fatto di soffrire di una malattia a livello psichiatrico non poteva e non doveva comportare di per sé l’automatico ricovero del paziente. A seguito della riforma, sottolineava il perito del Tribunale, è scomparso il concetto di pericolosità (e quindi della funzione di custodia per motivi di pubblica sicurezza) in favore di una valutazione incentrata sul concetto di “trattamento sanitario”, sulla tutela del paziente, e che considera il ricovero quale extrema ratio applicabile solo in assenza di alternative terapeutiche, o qualora – citando letteralmente l’art. 34 della L. 833/78 – “non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere”.
Con la sentenza n. 2197/2017 il Tribunale di Monza ha aderito alla relazione del proprio consulente, e pertanto ha rigettato la domanda risarcitoria degli attori, sancendo l’assenza di qualsivoglia responsabilità attribuibile alla dottoressa e/o alla struttura sanitaria convenute. Oggi le stesse, dunque, sono state sgravate dalla importante domanda risarcitoria avanzata nei loro confronti, e ancor prima da ogni accusa a loro mossa circa la responsabilità giuridica (e morale) di non aver impedito il duplice omicidio: i fatti di quella notte non sono stati il risultato di un caso di malasanità, ma la conseguenza di uno sciagurato evento che nessuno purtroppo avrebbe potuto prevedere.