Pubblicato sul sito www.7giorni.info
Egregio Avvocato,
sono separata da quattro anni consensualmente e, dato che io ed il mio ex coniuge abbiamo un figlio, abbiamo optato per l’affidamento congiunto condiviso. Il problema è che da quando il ragazzo è diventato maggiorenne, il mio ex si esime da quelli che prima erano gli accordi per le visite: lo vedeva ogni 15 giorni e lo portava con se per il week-end. Ora, oltre che per la tutela del ragazzo, che comunque non vede mai con la scusa che è grande, chiedo anche per me se tutto questo è lecito, visto che così facendo non ho nemmeno modo di coltivare un’altra relazione, dal momento che non sono mai sola. Chiedo se esista un provvedimento per poter far fare al mio ex il padre per ottenere anch’io un po’ di tranquillità.
Ally 64
Gentile Signora,
l’”affido condiviso” è il regime di affidamento dei figli che, come si è già avuto modo di spiegare in altre occasioni in questa rubrica, la L. 54/2006, modificando la disciplina previgente, ha previsto quale soluzione che il Giudice deve valutare in via prioritaria (rispetto all’affido esclusivo) e deve disporre, salvo che non risulti contrario all’interesse dei figli stessi, con i provvedimenti riguardo alla prole assunti in caso di separazione (art. 155 del Codice Civile), ovvero in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché nel caso di procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati (cfr. art. 4 L. 54/2006).
In particolare, questo regime non consiste tanto nella pari suddivisione del tempo di permanenza dei figli presso ciascun genitore (possibilità anche concretamente di difficile attuazione), bensì nell’assunzione condivisa delle responsabilità e delle scelte genitoriali, con lo scopo primario di garantire alla prole il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori .
Proprio in tale ottica di valorizzazione della bigenitorialità, sempre la citata legge 54/2006, ha, altresì, introdotto l’art. 709 ter cpc, che, per rafforzare in via indiretta l’efficacia dei provvedimenti del giudice, essendo nota la difficoltà di eseguire coattivamente i provvedimenti nella materia relativa alle relazioni famigliari, ha previsto un trattamento sanzionatorio in caso di comportamenti gravemente inadempienti o atti che arrechino pregiudizio al figlio od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento e, così, ha sancito il potere del Giudice di: ammonire il genitore inadempiente, disporre il risarcimento dei danni, in favore del minore o dell’altro coniuge o condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa da 75 a 5.000 euro in favore della Cassa ammende.
Tuttavia, vi è da precisare, che ha senso parlare di “affidamento” solo con riguardo ai figli minorenni, ovvero, in base a quanto sancito dall’art. 155 quinquies ultimo comma del Codice Civile, ai figli maggiorenni portatori di handicap grave ai sensi dell’art. 3 della legge 3 febbraio 1992 n. 104, che recita: “Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici“.
Al di fuori di questa unica eccezione, invece, con il raggiungimento della maggiore età si acquisisce la c.d. “capacità di agire”, e cioè, come spiega l’art. 2 del Codice Civile, la capacità di compiere validamente, senza più l’intervento dei genitori ovvero del Giudice Tutelare, tutti gli atti per cui non è prevista un’età differente.
Il che, necessariamente, ha delle ripercussioni anche sul piano dei rapporti familiari, poiché, salvo la ridetta eccezione di maggiorenni affetti da gravi handicap, con il compimento dei 18 anni, il figlio, per la legge, non ha più bisogno di essere “affidato”, potendo assumere sotto la sua sola responsabilità le decisioni che lo riguardano e, potendo, quindi, gestire direttamente, se vuole, le relazioni personali con ciascun genitore.
L’unico obbligo che permane in capo al genitore rispetto a figli maggiorenni, in base all’art. 155 quinquies del Codice Civile, è quello di contribuire al loro sostentamento qualora non siano autosufficienti dal punto di vista economico e fino a questo momento. Un obbligo, a fronte della cui violazione, la legge prevede appositi strumenti di tutela, garantendo sia al genitore che provveda al mantenimento in via esclusiva sia al figlio di ottenere coattivamente il rispetto del provvedimento giudiziario.
Permane, altresì, il diritto per i figli maggiorenni di fare causa a quel genitore che si sia sottratto ai doveri derivanti dal rapporto di filiazione, con conseguente risarcibilità dei danni di natura non patrimoniale per la subita lesione dei fondamentali diritti della persona inerenti la qualità di figlio.
Si ricorda, a tal proposito, una recente sentenza della Corte di Cassazione del 10.04.2012 n. 5652, che ha confermato la bontà della decisione del Tribunale e della Corte d’Appello di Catania, che aveva accolto la domanda di risarcimento per € 25.000,00 in via equitativa di un figlio, ormai quarantenne, che aveva fatto causa al padre naturale per ottenere il risarcimento del pregiudizio sofferto a causa del genitore che gli aveva sempre rifiutato la dovuta assistenza materiale e morale, nel periodo successivo il compimento dei 18 anni e fino al raggiungimento dell’indipendenza economica, precisando che “non può dubitarsi che il disinteresse dimostrato da un genitore nei confronti di un figlio, manifestatosi per lunghi anni e connotato, quindi, dalla violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione, determini un vulnus, dalle conseguenze di entità rimarchevole ed anche, purtroppo, ineliminabili, a quei diritti che, scaturendo dal rapporto di filiazione trovano nella carta costituzionale (in part. Artt. 2 e 30), e nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento un elevato grado di riconoscimento e tutela“.
Si tratta, di una decisione che si inserisce nel più vasto orientamento, formatosi sia in dottrina che in giurisprudenza, che ha enucleato la nozione di “illecito endofamiliare”, in virtù del quale la violazione di doveri genitoriali, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, può integrare gli estremi dell’illecito civile e dar luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ex art. 2059 C.C..
Va da sé, che tale pregiudizio deve, comunque, trovare la sua origine più profonda nell’infanzia del bambino, pur avendo ripercussioni permanenti e anche successive al raggiungimento dell’età adulta.
Non ritengo, pertanto, calzante tale ipotesi a quella che mi ha prospettato, poiché da quanto posso dedurre dalla sua lettera, il comportamento inadempiente del suo ex marito nei confronti di vostro figlio sarebbe limitato al periodo successivo al raggiungimento della maggiore età e si esplicherebbe con il rifiuto di esercitare il diritto di visita previsto dai provvedimenti giudiziali giustificato dal fatto che ormai è “diventato grande”.
Orbene, in assenza di circostanze che legittimino l’applicazione delle disposizioni in favore di figli minori che, tuttavia, dalla sua missiva non emergono, devo purtroppo risponderle che il padre non è più costretto a tenere “in affido” il figlio, così come del resto non lo è neppure lei, visto che, con il raggiungimento della maggiore età, l’”affido condiviso” deciso in sede di separazione non ha più ragion d’essere ed è, quindi, anacronistico, almeno per ciò che concerne il diritto/dovere di visita e di permanenza presso ciascun genitore.