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Incidente mortale. Dopo 7 anni la sentenza

By Casi

Si è conclusa nel 2016 la vicenda giudiziaria iniziata a seguito della tragica morte di un giovane avvenuta il 24.03.2009 sulla SP 21 tra Robecco d’Oglio e Corte de’ Cortesi.

Il responsabile, dapprima, patteggiava una pena ad un anno di reclusione con la sospensione condizionale e, allorquando la madre e i fratelli del giovane deceduto, la compagna anche in rappresentanza della figlia minore di quattro mesi, decidevano  di adire il Tribunale Civile di Cremona per ottenere il risarcimento dei danni, si costituiva in giudizio chiedendo a sua volta i danni subiti a seguito del sinistro sostenendo che la colpa di quanto accaduto non era sua.

Il Giudice, Dott. Benedetto Sieff, con la sentenza n. 63/2016, all’esito di una puntuale ricostruzione della dinamica dell’incidente e dell’esame di tutto il supporto probatorio, ha accolto le domande formulate per conto delle persone offese dagli Avvocati Ilaria Donini e Luigi Lucente.

In particolare, “Ricordando che gli atti pubblici (verbali di incidente) sono liberamente valutabili dal Giudice quanto al contenuto delle dichiarazioni di terzi, e dunque ai fatti e alle circostanze in esse riportati, e tanto più quanto alle deduzioni, alle valutazioni e alle ricostruzioni operate dal Pubblico Ufficiale, sia pure utilizzando i dati oggettivi raccolti tramite i rilievi sui luoghi, cose e persone, a giudizio di questo Tribunale, il rapporto in parola è del tutto inattendibile, quanto alle conclusioni ricostruttive dell’accaduto  cui perviene e, pertanto, assolutamente inaffidabile e quindi inutilizzabile ai fini probatori. Questo non solo perché condizionato da una limitata e  imprecisa raccolta dei dati oggettivi  […] ma anche perché lo stesso redattore del rapporto […] sentito a testimone nel processo ha completamente contraddetto e smentito la conclusione nel senso della responsabilità (del ragazzo deceduto)”.

Peraltro – come spesso accade nelle verbalizzazioni redatte nelle immediatezze dei fatti – l’agente si esprimeva in termini ipotetici e presuntivi nel rapporto nel senso che, inizialmente, presumeva  che fosse stata la vittima ad invadere la corsia opposta.

Tale presunzione veniva strumentalizzata, come detto, dal responsabile dell’incidente tanto da indurlo a contrattaccare in giudizio.

Le approfondite indagini del Giudice, tuttavia, hanno consentito allo stesso di argomentare sulla carenza di contenuto probatorio  del rapporto e sull’infondatezza delle presunzioni dell’agente verbalizzante, accertando la verità con provvedimento del 17.01.2016.

L’ASSICURAZIONE PRENDE TEMPO E NON PAGA IL RISARCIMENTO PER I DANNI DA SINISTRO STRADALE (?!): QUESTA VOLTA E’ STATA SEVERAMENTE PUNITA

By Pronunce

La canzone Zum Zum Zum che Mina presentò nel 1967 durante il varietà televisivo  “Sabato sera” in onda sul programma nazionale iniziava con questa frase : sarà capitato anche a voi!

Lunghi ed estenuanti i tempi di attesa per ottenere un risarcimento giusto dall’assicurazione in caso di sinistro stradale.

Il Dr. Alessio Liberati, Giudice Unico presso il Tribunale di Tivoli, con una recente sentenza (la n. 2428/2015)  che – per quanto andremo a spiegare –  può definirsi “esemplare” ha deciso per : … ora basta!

Il caso in esame è la storia di un giovane che in data 13.06.2007 mentre attraversava a piedi una via cittadina in un tratto privo di strisce pedonali veniva investito da una macchina (Fiat Punto) proveniente ad alta velocità ( e, in ogni caso, inadeguata alla situazione di assenza di illuminazione). Subentrava da dietro una seconda autovettura (Audi A4) che tamponava la prima spingendola a salire sulla vittima con la scocca.

Immediatamente soccorso, il giovane veniva trasportato con urgenza in ospedale e ivi sottoposto ad intervento chirurgico.

Si legge nella documentazione medica di: “Esiti di trauma cranico facciale con frattura dei due incisivi inferiori mediali ed incisivo superiore mediale destro con cicatrice vestibolare labbro inferiore. Esiti di pregressa lesione epatica trattata chirurgicamente. Esiti di contusione polmonare e di fratture anteriore della costa VI e VII sinistra. Esiti di frattura pluriframmentata del femore destro trattato chirurgicamente con riduzione e sintesi mediante chiodo endomidollare, consistenti in limitazione dei gradi estremi della coxo-femorale e cicatrici chirurgiche”.

Nei mesi successivi fu costretto ad una lunga riabilitazione.

Nulla ricevendo a titolo di risarcimento per i gravi danni riportati, il pedone si rivolgeva al Tribunale di Tivoli.

Quanto alla responsabilità per il Tribunale, la causa del sinistro era da addebitare per il 95% alla prima autovettura che aveva investito la vittima che attraversava la carreggiata per la velocità “certamente non adeguata alla situazione di assenza di illuminazione” e solo in via marginale (il 5%) al veicolo sopraggiunto che, solo in un secondo momento, tamponava la vettura incidentata e cagionava la salita di questa sulla vittima, con la scocca.

Per il danno riportato, debitamente documentato dalla CTU, espletata in corso di giudizio, veniva liquidato un risarcimento per il pedone infortunato di oltre 213mila euro con personalizzazione massima.

Anche le spese a favore dell’avvocato difensore del ragazzo venivano stabilite nella misura massima ( posta la complessità del giudizio e del valore vicino al massimale massimo) di € 25.000,00 oltre accessori di legge e rimborso spese generali 15% e poste – anche queste – a carico delle assicurazioni adite (titolari del contratto assicurativo con i proprietari delle vetture).

Ma l’eccezionalità di questa sentenza e in queste righe che seguono:

Devono inoltre essere condannate le compagnie assicuratrici al pagamento delle spese aggravate per lite temeraria, in quanto è evidente che hanno resistito in giudizio senza aver liquidato il danno che, stante le competenze delle compagnie, certamente era ben noto alle parti. Nella rappresentazione dei fatti, inoltre, hanno enfatizzato elementi del tutto trascurabili o addirittura equivoci. Ad esempio – spiega il Giudice nel provvedimento – che le compagnie avevano insistito negli atti nel sostenere che il pedone aveva attraversato “ al di fuori di strisce pedonali” quando in realtà sapevano che quel tratto di strada era privo di strisce pedonali! E quindi si poteva semmai solo parlare di “assenza di strisce” e con ciò evitando di strumentalizzare la circostanza lasciando intendere che il pedone avesse una corresponsabilità.

Il Giudice ha , altresì, puntato il dito contro le Compagnie di Assicurazione ritenendo che le stesse avessero tergiversato negando il giusto risarcimento approfittando dello status [del ragazzo danneggiato] di straniero senza fissa dimora [ che ] è notoriamente elemento che gioca a sfavore della vittima (che difficilmente avrà accesso alla giustizia), come certamente noto alle compagnie assicuratrici.

Per tale ragione si stima equo condannare ogni compagnia assicuratrice a pagare una somma pari al quadruplo delle spese legali (€ 100.000,00), in favore di parte attrice, ex art. 96 u.c. cpc. Del resto l’istituto delle spese aggravate è strumento finalizzato a disincentivare le cause defatigatorie e strumentali e deve essere parametro alla capacità ed alla forza giuridica della parte ed alla posizione di vantaggio che la parte colposamente resistente vanta nei confronti dell’avente ragione.

In proposito non può sottacersi l’esistenza di un enorme contenzioso (che rallenta ulteriormente la giustizia) che vede soccombenti le compagnie assicuratrici e che è generato – con tutta evidenza – da intenti defatigatori delle compagnie assicuratrici stesse, nel palese tentativo di indurre le parti ad accettare somme inferiori al dovuto in tempi brevi o, al contrario, dover sottostare ai lunghi tempi della giustizia e, non da ultimo, al rischio di errori processuali. La tolleranza di tali comportamenti si tradurrebbe, inevitabilmente, in un vantaggio economico che,  in un’ottica imprenditoriale, è destinato sempre e comunque ad alimentare il contenzioso, stante gli evidenti vantaggi che per l’impresa assicurativa ne derivano.”

ESPOSIZIONE all’AMIANTO…

By Casi

…Gli eredi del lavoratore deceduto a causa di un mesotelioma pleurico contratto a seguito di contatto con l’amianto sul posto di lavoro hanno diritto a vedersi riconosciuto – iure hereditatis – il danno biologico permanente del defunto padre anche se la patologia contratta  aveva condotto quest’ultimo  alla morte senza che vi fosse  stata guarigione clinica? La risposta è: NO.

Con ricorso ex art. 414 c.p.c., nell’anno 2009, un figlio conveniva in giudizio avanti al Tribunale, Sezione Lavoro, la Società che era stata datrice di lavoro del defunto padre chiedendo di accertare e dichiarare la responsabilità della prima in ordine alle lesioni patite dal padre ed in ordine al successivo decesso.

Il ricorrente poneva a sostegno delle proprie ragioni le seguenti allegazioni:

-che Egli sarebbe stato l’unico erede del di lui padre deceduto nel 2007 a causa di mesotelioma pleurico, forma tumorale che colpisce esclusivamente individui esposti a contatto con l’amianto e che ha un periodo di latenza tra i 20 e i 40 anni;

-che il padre aveva prestato attività lavorativa quale idraulico manutentore in favore della resistente per 26 anni, senza soluzione di continuità fino al pensionamento;

-che durante il ridetto periodo lavorativo il padre, nell’espletamento delle proprie mansioni sarebbe venuto a contatto con “importanti quantità di polvere d’amianto” e che nel corso del rapporto di lavoro nessuno l’avrebbe informato circa i rischi specifici dell’esposizione all’amianto;

-che, dunque, essendo il periodo di latenza della forma di malattia compreso tra i 20 e i 40 anni ed avendo il padre lavorato presso la resistente in quel lasso di tempo sarebbe certo, “senza ombra di smentita”, che la malattia che ha portato alla morte è stata causata dal contatto con l’amianto.

La Società convenuta difesa dagli avvocati Luigi Lucente e Ilaria Donini si costituiva in giudizio contestando integralmente tutte le avverse prospettazioni e domande, chiedendone l’integrale reiezione.

Il Tribunale di primo grado, dopo l’istruttoria,  accoglieva il ricorso del ricorrente e con sentenza n.  241/2012 dichiarava “la responsabilità della Datrice di Lavoro per le lesioni patite dal padre del ricorrente a seguito del mesotelioma pleurico che lo condussero al decesso, accertata la sussistenza del nesso eziologico causale tra la malattia e l’attività lavorativa svolta condanna la Datrice di Lavoro a pagare il risarcimento e in particolare – per quel che attiene questo commento –  a pagare una consistente somma superiore al mezzo milione di Euro a titolo di risarcimento del danno biologico permanente e temporaneo del de cuius”.  

Il Tribunale – sul punto – disattendendo, peraltro, le valutazioni espresse nella CTU che prevedeva solo un danno di temporanea invalidità di circa 3 anni (compreso tra la diagnosi e la morte) riconosceva al lavoratore nel frattempo defunto il danno da invalidità permanente.

Si sottolinea ancora una volta che il perito del Tribunale non aveva accertato in capo al de cuius la stabilizzazione di eventuali postumi permanenti.

La Società, Datrice di Lavoro, impugnava la sentenza di primo grado innanzi alla Corte d’Appello di Milano. Criticava in generale il Giudicante di prime cure che, pur dichiarando di aderire alle valutazioni espresse al consulente tecnico d’Ufficio le aveva poi disattese senza fornire una adeguata motivazione del suo convincimento e senza indicare i criteri logici e giuridici che avevano determinato il suo giudizio.

Tra i motivi d’Appello invocati dagli Avvocati Luigi Lucente e Ilaria Donini vi era quello della:

Erroneità della sentenza sotto il profilo della determinazione del quantum del risarcimento del danno iure hereditario e omessa motivazione sul punto.  

Per i sopraddetti difensori aveva errato clamorosamente l’estensore quando, dopo aver riportato pedissequamente la quantificazione percentuale individuata dal suo C.T.U., aveva disatteso le valutazioni espresse nell’elaborato tecnico, riconoscendo in favore del ricorrente una voce di danno non accertata in sede di C.T.U assolutamente non provata dal ricorrente.

Si faceva notare  che, seppur le valutazioni del Ctu non sono vincolanti per il Giudice,  quando quest’ultimo decide di discostarsene è obbligato a fornire adeguata motivazione del proprio convincimento, indicando il percorso logico giuridico che lo ha determinato a giungere a conclusioni di segno opposto.

Nella fattispecie l’estensore, anziché limitarsi a liquidare i danni biologici da invalidità temporanea (parziale e assoluta) così come accertati dal consulente, aveva deciso senza motivare in alcun modo la propria determinazione e quindi arbitrariamente di condannare la Società  non solo al ristoro del danno biologico iure hereditario da invalidità temporanea, ma anche al risarcimento del danno biologico iure hereditario da invalidità permanente.

Ebbene  sempre secondo i difensori Lucente e Donini tale voce di danno non poteva e non doveva  essere riconosciuta al ricorrente  in quanto nel caso che ci occupa non vi era stata in capo al de cuius la stabilizzazione di eventuali postumi permanenti.

I difensori hanno esposto a sostegno delle ragioni della propria assistita che la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione sul punto è chiarissima:  in ipotesi in cui sia deceduto un lavoratore, deve essere negata la sussistenza di un danno biologico da invalidità permanente quando manca, come nel caso trattato, una censura temporale tra il periodo di invalidità permanente e quello di invalidità temporanea, non seguita dalla cessazione della malattia e dalla stabilizzazione dei relativi postumi.

Il presupposto imprescindibile per il riconoscimento del danno biologico da invalidità permanente è rappresentato, infatti, dalla stabilizzazione dei postumi: stabilizzazione che nel caso che ci occupa non si è avuta.

La malattia, dal giorno della diagnosi, è proseguita senza soluzione di continuità portando alla morte.

In un caso analogo a quello che ci occupa – hanno spiegato i difensori – agli eredi di un lavoratore deceduto a causa di mesotelioma contratto per inalazione di fibre di amianto nell’ambiente di lavoro è stato riconosciuto un danno non patrimoniale iure hereditatis da invalidità temporanea totale con relativa personalizzazione.  La Sentenza della Corte di Cassazione n. 9238 del 21.04.2011 ha, infatti,  statuito che: “La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei  principi posti dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 26972 e, tenuto conto dell’esigenza di evitare la duplicazione dei titoli di risarcimento, ha dato atto come, nel caso,  l’invalidità temporanea  si fosse protratta dalla diagnosi della malattia al decesso del lavoratore, con la conseguenza, che mancando una censura temporale tra il periodo di invalidità permanente e quello di invalidità temporanea, non seguita dalla cessazione della malattia e dalla stabilizzazione dei relativi postumi, il riconoscimento di entrambi i titoli di danno, avrebbe comportato il ristoro, non consentito, di un identico pregiudizio”.

Ed ancora la recentissima sentenza delle Corte di Cassazione Sezione Lavoro, n. 8655 del 30.05.2012 sempre in tema di problematica concernente l’esposizione ad amianto e sempre alla stregua della sentenza delle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte n. 26972 dell’11.11.2008,  ha riconosciuto agli eredi  di un operaio di un cantiere navale deceduto a seguito della morte a causa di una neoplasia polmonare,  quale conseguenza della inalazione delle fibre di amianto presenti sul luogo di lavoro, esclusivamente il danno non patrimoniale iure hereditario da invalidità temporanea e non quello da invalidità permanente, se pur con un criterio di personalizzazione che ha tenuto conto della intesità della sofferenza provata dalla vittima.

Sempre in tema di quantificazione del danno richiesto dagli eredi di un lavoratore addetto alla lavorazione dell’amianto  e deceduto per aver contratto la malattia in ambiente lavorativo insalubre, – i difensori hanno fatto notare che – anche la sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 2251 del 16 febbraio 2012 ha riconosciuto agli eredi del lavoratore esclusivamente il danno biologico correlato all’inabilità temporanea del de cuius per il tempo di permanenza in vita, determinato anche in  base “ alla intensità della sofferenza provata, dalle condizioni personali e soggettive del lavoratore e dalle altre particolarità del caso concreto”.

Precisamente la ridetta sentenza della Suprema Corte confermava la pronuncia n. 448/2006 della Corte d’Appello di Venezia del 09.01.2007  in punto di quantificazione del danno, laddove statuiva che l’unico danno biologico risarcibile è quello correlato all’inabilità temporanea per il tempo di permanenze in vita, mentre censurava la pronuncia di merito nella parte in cui si era proceduto alla liquidazione del danno in maniera automatica, senza tener conto della situazione soggettiva del soggetto danneggiato.

Dunque correttamente era stato riconosciuto esclusivamente il risarcimento del danno biologico e morale sofferto dal defunto, rivendicato dai figli a titolo successorio e maturato nel periodo intercorrente tra il manifestarsi della malattia e il decesso.

Ed ancora in senso conforme, con riguardo ad un caso di azione promossa per  il riconoscimento del risarcimento  dei danni da parte degli eredi di un lavoratore deceduto per infortunio, è stato riconosciuto in capo alla vittima esclusivamente un danno biologico da invalidità temporanea, la cui entità è stata personalizzata, ma non un danno da invalidità permanente (Cfr. Corte di Cassazione sentenza n. 1072 del 18.01.2011).

I difensori Lucente e Donini insistevano, dunque, affinché sul punto la sentenza venisse integralmente riformata.

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 5/2015 ha accolto il 4° motivo di appello ( di cui al presente commento).

Ha osservato come non sia stato accertato in sede peritale alcun consolidamento degli effetti invalidanti della patologia, progressivamente evolutasi dalla diagnosi al decesso – nell’arco di circa 2 anni e 8 mesi in assenza di alcuna comprovata stabilizzazione di postumi permanenti.

In tale ipotesi, secondo la giurisprudenza condivisa da questa Corte, deve farsi luogo ad una liquidazione del danno – sia pure di natura solo temporanea – che tenga conto, in base ad un procedimento di personalizzazione operato mediante “un criterio equitativo puro”, della “natura peculiare” e dell’enormità del pregiudizio” subito dal soggetto nel corso della patologia che lo conduce al decesso (v. Cass. 31.10.2014, n. 23183).  

Ciò in quanto, come rilevato dal Supremo Collegio, “tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte” (Cass. 23183/14, cit.).  

La liquidazione da operarsi, alla luce di tale insegnamento, nel caso di specie, dovrà tenere conto di una serie di elementi, quali – da un lato – la protratta durata della patologia, l’assenza di prospettive di guarigione, la rilevante entità delle relative conseguenze invalidanti, come sopra evidenziate e – dall’altro – l’età avanzata del soggetto, deceduto all’età di 78 anni.

Quindi la Corte d’Appello di Milano si è uniformata all’orientamento della Suprema Corte di Cassazione per cui lo stato di “invalidità permanente” presuppone un periodo di malattia, dunque una guarigione che permetta di valutare i danni riportati.

 

(Orientamento confermato anche nella recente sentenza n. 5197 del 17 marzo 2015 Corte di Cassazione civile, sezione terza)

Comunione ereditaria fra fratelli: chi ha vissuto con i genitori, può vantare dei privilegi sulla casa familiare?

By Pubblicazioni

Comunione ereditaria fra fratelli: chi ha vissuto con i genitori, può vantare dei privilegi sulla casa familiare?
«Il fatto che sua sorella abbia convissuto con i suoi genitori, prima, e con sua madre, poi, non le dà diritti o privilegi diversi rispetto a lei e agli altri fratelli coeredi»

E’ possibile leggere l’articolo completo cliccando qui

DIFFORMITÁ URBANISTICHE ED AMMINISTRATIVE DELL’IMMOBILE NON SANATE ALLA DATA DEL ROGITO: IL PROMISSARIO ACQUIRENTE PUO’ VALIDAMENTE LIBERARSI E PRETENDERE IL DOPPIO DELLA CAPARRA

By Casi

La controversia trae origine dal contratto preliminare di compravendita che la Sig.ra V., in qualità di promissaria acquirente,  rappresentata e difesa dall’Avv. Luigi Lucente, aveva stipulato con riferimento ad un’unità immobiliare sita nella periferia milanese.

In detto contratto, le parti avevano concordato una data per il rogito, data entro la quale il promissario venditore Signor L. si era impegnato a sanare le difformità urbanistiche, edilizie ed amministrative del bene.

Tuttavia, mentre la Signora V. aveva onoraro i propri impegni, corrispondendo a  titolo di caparra confirmatoria la somma complessiva di €. 10.000,00, altrettanto non aveva fatto la sua controparte, che aveva omesso di regolarizzare l’immobile in questione.

Di conseguenza, la Signora V. rifiutava di addivenire alla compravendita invocando il recesso per grave inadempimento del Signor L., invitandolo e  diffidandolo a restituire il doppio della caparra ricevuta.

Non essendo addivenuti ad una soluzione bonaria della vicenda, la Signora V. conveniva il Signor L. innanzi al Tribunale di Milano.

Il convenuto si costituiva nel processo incardinato e chiedeva il rigetto della domanda dell’attrice, sostenendo che la pretesa restitutoria fosse infondata, anche perchè – a suo dire – era stata la Signora V. ad essere per prima inadempiente rispetto ai suoi obblighi contrattuali non avendo corrisposto l’ulteriore somma concordata nel preliminare di €. 25.000,00 prima della data prevista per la sottoscrizione del rogito e, quindi, chiedeva al Tribunale di accertare il suo legittimo diritto di trattenere quanto versato a titolo di caparra confirmatoria ex art. 1385 del Codice Civile.

A difesa del suddetto mancato ulteriore versamento, la Sig.ra V. invocava una scrittura privata successiva al preliminare con cui era stata convenuta l’eliminazione di questo ulteriore versamento prima del rogito.

La signora infatti, aveva già iniziato a nutrire dei sospetti sul fatto che al momento della vendita il bene potesse essere in regola, e bene aveva fatto ad accordarsi per limitare gli esborsi prima del rogito.

Con sentenza n. 4745/2015 il Tribunale di Milano, sezione IV, anche all’esito di una puntuale indagine peritale sul bene oggetto di causa, ha accolto la tesi sostenuta dall’Avv. Luigi Lucente in favore della propria Assistita, motivando nel merito la decisione in questi termini: La domanda attorea è fondata […]. Il Tribunale ritiene che, come emerge dal contenuto della citata scrittura privata sottoscritta dalle parti in data 3.10.2009, con cui le parti hanno espressamente inteso integrare il contratto preliminare, i contraenti hanno inteso operare una modifica delle sole modalità di pagamento della somma complessiva che la promissaria acquirente avrebbe dovuto corrispondere al promittente venditore, eliminando la scadenza intermedia di €. 25.000,00, la quale secondo la pattuizione originaria contenuta nel preliminare avrebbe dovuto integrare la caparra confirmatoria. Ciò è deducibile chiaramente dal testo stesso della scrittura privata richiamata […].

Alla luce di quanto sin qui argomentato, dunque, si deve affermare che l’asserito inadempimento della promissaria acquirente non si è in realtà verificato, in quanto la V. ha corrisposto al promittente venditore le somme dovute con le modalità inter partes pattuite, mentre il saldo sarebbe stato dovuto solo al rogito.

Passando ora ad esaminare l’allegazione della V. in merito al fatto che la mancata stipulazione del rogito sia avvenuta per fatto imputabile alla controparte, in quanto il L. avrebbe omesso di regolarizzare l’immobile oggetto del contratto non compiendo a tal uopo le formalità burocratiche e amministrative necessarie entro la data concordata a tal fine, ossia il 15.12.2010, chiare sono le risultanze della perizia redatta dal CTU a tal fine nominato Arch. B. […]

Il CTU ha confermato che le difformità urbanistiche ed amministrative denunciate dall’attrice e che hanno portato quest’ultima a rifiutare la stipula del rogito esistevano sia alla data prevista per il rogito stesso (15.12.2010) sia alla successiva data del 27.12.2010, in cui il promittente venditore ha assicurato alla promissaria acquirente che la regolarizzazione dell’immobile era avvenuta tramite lettera raccomandata inviata in risposta ad un sollecito di questa. Per ciò solo deve ritenersi legittimo il recesso dal contratto da parte della promissaria acquirente per inadempimento della controparte […].

Egli avrebbe dovuto, innanzitutto, provvedere in tal senso entro la data di stipulazione del rogito, in disparte dal fatto che il termine fosse essenziale o meno.

In secondo luogo, è grave, ai fini dell’affidamento della promissaria acquirente che, oltre il termine per il rogito, con la raccomandata del 27.12.2010, il L. abbia consapevolmente posto in essere dichiarazioni che sapeva non essere suffragate dai fatti […].

In considerazione di quanto sin qui argomentato, trova accoglimento la domanda di parte attrice principale di accertamento della legittimità del recesso da questa invocato, per inadempimento grave imputabile al promittente venditore, e, per l’effetto, il convenuto deve essere condannato al versamento a favore dell’attrice del doppio della caparra ricevuta pari a €. 20.000,00, oltre interessi […] Le spese di lite seguono l’ordinario criterio della soccombenza e sono poste a carico del convenuto”.