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Se un DENTISTA sbaglia ad eseguire un trattamento sanitario deve risarcire il danno al paziente e restituire il compenso percepito anche se il paziente aveva già ottenuto il rimborso di quanto pagato in forza di una polizza sanitaria privata

By Casi

Un paziente, rappresentato e difeso dall’Avv. Luigi Lucente, aveva convenuto innanzi al Tribunale di Milano il proprio dentista perché venisse accertato il comportamento negligente, imprudente e imperito del professionista nell’esecuzione della prestazione medico professionale resa (opere di carattere protesico) e, quindi, l’inadempimento del medesimo rispetto al contratto sorto fra le parti.

La prestazione eseguita dal dentista convenuto, infatti, era stata sostanzialmente inutile per il paziente (già portatore di una situazione odontostomatologica compromessa). Il malcapitato paziente non solo non aveva risolto i problemi odontoiatrici per cui si era rivolto al dentista, ma aveva – per effetto di cure incongrue – perso anche dei denti.

I marchiani errori nell’operato di tale professionista, peraltro, erano già stati certificati dalla relazione di un Consulente Tecnico dell’Ufficio, redatta in occasione dell’Accertamento Tecnico Preventivo incardinato sempre dal paziente innanzi allo stesso Ecc.mo Tribunale di Milano, all’esito del quale l’attore aveva già ottenuto un importo dalla Compagnia di Assicurazione del medico a titolo di risarcimento danni.

Conseguentemente, nel giudizio di cui si tratta, così come previsto dal Codice Civile, il paziente chiedeva venisse, altresì, dichiarata la risoluzione del rapporto con il dentista e la condanna di quest’ultimo alla restituzione dell’importo complessivo corrisposto a titolo di compenso.

Dall’inadempimento grave, infatti, secondo la tesi offerta all’attenzione del Giudicante dall’Avv. Luigi Lucente, conseguiva, per regola generale – applicabile anche nel caso in cui siano coinvolti dei dentisti – che il contraente non inadempiente ( in questo caso il paziente difeso) che avesse pagato aveva diritto, in caso di risoluzione, alla ripetizione del corrispettivo (Cass. 16 ottobre 1995, in E. Protetti – C. Protetti, Medici e biologi nella giurisprudenza, Milano 1998, pag. 315; Trib. Milano, 25 giugno 1999, in Corr. Giur. 2000, pag. 374 ss. e Trib. Varese, 5 novembre 2001, in Resp. Civ. Prev., 2002, pag. 1135, nonché nell’articolo di Daniele Maffeis “responsabilità medica e restituzione del compenso: precisazioni in tema di restituzioni contrattuali”, Resp. Civ. e Prev. 2004, 4-5, 1121, anche in De Jure on line 2014).

Si richiamava in proposito l’interessante sentenza del 30 aprile 2007 sez. XIII del Tribunale di Roma (consultabile anche sul motore di ricerca De Jure on line 2014) in cui il Giudice est. Dr. Marco Rossetti, Magistrato attualmente applicato all’Ufficio Massimario della Corte di Cassazione, trattando una fattispecie del tutto analoga, accoglieva la domanda di risoluzione contrattuale avanzata dal paziente, precisando che da ciò discende, sul piano degli effetti, che:
1) era dovuta la restituzione delle somme già versate (effetto restitutorio scaturente dalla risoluzione);
2) era dovuto il risarcimento del danno, sia non patrimoniale che patrimoniale, inteso quest’ultimo come spese mediche in futuro da sostenere in conseguenza della condotta inadempiente del medico (effetto risarcitorio scaturente dalla risoluzione, nel caso di cui ci occupa già sostenuto dalla Compagnia di Assicurazione).
Secondo il pensiero del Giudice Dr. Marco Rossetti, infatti, per quanto attiene agli obblighi restitutori scaturenti dalla risoluzione di un contratto di prestazione d’opera professionale, il controvalore di una prestazione professionale che abbia recato un danno alla salute del paziente è certamente pari a zero e, dunque, per essa, non sarebbe stato dovuto alcun corrispettivo, “[…] deve, pertanto, concludersi che il paziente non è tenuto a versare al medico professionista il corrispettivo pattuito e, se versato, ha diritto a pretenderne la restituzione, quando l’intervento sia stato eseguito in modo imperito (così Trib. Roma 20.10.2003, in Giurispr. Romana, 2004, fasc. 12)”.

Il dentista convenuto si costituiva regolarmente nel processo incardinato innanzi al Tribunale di Milano e chiedeva il rigetto della domanda attorea, sostenendo che la pretesa restitutoria fosse infondata dato che il paziente aveva già attenuto il rimborso di quanto pagato per le prestazioni eseguite da una Società terza ( compagnia di assicurazioni) in forza di una polizza privata stipulata dall’attore. In altri termini, poiché – in tempi non sospetti- il paziente aveva ottenuto il rimborso di quanto pagato al proprio dentista dalla Compagnia di Assicurazioni con cui aveva acceso una polizza sanitaria, non aveva titolo di chiedere indietro anche quanto pagato al dentista medesimo poiché  diversamente si sarebbe indebitamente arricchito.

Con la sentenza n. 10469 del 22 agosto 2014 emessa dal Tribunale di Milano, sezione I, è stata accolta la tesi sostenuta dall’Avv. Luigi Lucente in favore del proprio Assistito. La decisione del Tribunale meneghino è stata così motivata:
La domanda dell’attore è fondata.
Non sono in contestazione tra le parti:
– la ricorrenza tra loro di un rapporto contrattuale di prestazione di attività intellettuale volto all’esecuzione da parte del dott. … di quanto meglio dettagliato nei docc. … dell’attore (fatture n. … ; anche sub docc. … del convenuto con relativi “estratto conto”);
– il pagamento da parte del … (paziente) al … (dentista) della complessiva somma di €. 16.173,00 quale corrispettivo delle prestazioni rese;
– la responsabilità del convenuto “per negligenza o imperizia sia nella progettazione che nell’esecuzione dei lavori protesici e interventi non conformi alle regole dell’arte” come accertato dal consulente tecnico nominato dall’ufficio in sede di procedimento preventivo (cfr fascicolo acquisito) le cui conclusioni sono pienamente condivisibili, conseguenti ad un esauriente esame delle risultanze in esito al contraddittorio tecnico svoltosi;
– l’intervenuta transazione, in data … (doc. … attore), tra l’attore e la compagnia di assicurazione del … (medico) “a tacitazione definitiva di ogni danno, personale, materiale, patrimoniale e non patrimoniale, presente e futuro, subito in conseguenza del sinistro” (doc. … );
– l’esecuzione dell’accordo transattivo del rimborso di quanto corrisposto dal … (paziente) al … (dentista) a titolo di compenso, trattandosi di “voce” non compresa nel rischio assicurato;
– il rimborso all’attore da parte della … (terzo) di quanto da lui pagato al … dentista.
Le risultanze dell’accertamento peritale e la loro non contestazione da parte del convenuto consentono di ritenere accertato l’inadempimento del … (dentista) al contratto d’opera professionale concluso con il … (paziente) e conseguentemente di dichiararne la sua risoluzione per tale ragione.
Dalla dichiarazione di risoluzione del contratto discendono gli obblighi restitutori e nel presente giudizio il … (paziente) ha esercitato il suo diritto alla restituzione del corrispettivo versato pari ad €.16.173,00.
Il convenuto contesta la pretesa dell’attore ed afferma che l’accoglimento della domanda qui proposta rappresenterebbe per il … (paziente) “indebito arricchimento” poiché egli ha già ottenuto il rimborso della somma indicata dalla … (compagnia di assicurazione del paziente).
Ritiene questo giudice che tale motivo dedotto dal convenuto non sia fondato. Si è detto che è dato pacifico in causa che il pagamento del compenso al professionista sia stato effettuato direttamente dal … (paziente). […] l’unico soggetto legittimato a richiedere al … (dentista) la restituzione del corrispettivo versato, a  seguito della risoluzione del contratto, è il … (paziente) che ha eseguito il pagamentoNel caso di specie non può infatti configurarsi un diritto di surrogazione di … (terzo) (nei termini riservati dall’art. 1916 c.c. alle assicurazioni) né il convenuto ha dimostrato che, in forza di specifica clausola del rapporto … (paziente) / … (compagnia di assicurazione del paziente), quest’ultima al momento del rimborso all’attore si sia a lui surrogata nel diritto verso il terzo responsabile. Né l’eventuale “indebito arricchimento” che deriverebbe all’attore dall’accoglimento della domanda di restituzione, può essere legittimamente dedotto dal convenuto che non è il soggetto a danno del quale tale indebito si realizzerebbe, non avendo egli alcun titolo per trattenere il corrispettivo ricevuto in forza di  un contratto risoltosi per suo inadempimento”.

QUALI CRITERI INTERPRETATIVI SONO PIU’ IDONEI PER RISPETTARE AL MEGLIO LA REALE INTENZIONE DEL TESTATORE?

By Pronunce

Un uomo in punto di morte scrive un testamento e dispone in tal senso:” desidero che la mia Villa, sita in via …, diventi una casa di riposo e pertanto la lascio all’ente comunale di assistenza della città di Trani; se vi fossero altri beni alla mia morte non considerati in questo mio scritto, come se vi fossero dei debiti, il tutto va a favore ed a carico di mio nipote G.

La Villa di cui trattasi era circondata da un terreno, in parte adibito a frutteto e in parte a vigneto. Pur non essendo stata fatta esplicita menzione nel testamento del ridetto terreno circostante la Villa, l’Ente comunale se ne era comunque appropriato, ritenendo che il ridetto terreno fosse legato alla Villa da un rapporto pertinenziale tale da non poter essere separato in assenza di una esplicita volontà del testatore in tal senso.

Il nipote del de cuius ( G. ) invece, ovviamente, sosteneva l’esatto contrario e cioè che  il terreno costituiva un bene del tutto autonomo rispetto all’immobile come indicato nei registri catastali. Per cui il terreno spettava a lui : il termine ( Villa) impiegato dallo zio non poteva ritenersi suscettibile di significati estensibili ad altri beni se non alla costruzione.

In primo grado, il Tribunale di Trani dava ragione al nipote ( G. ).

La Corte d’Appello, prima,  e la Corte di Cassazione, poi, decidono in modo differente perché a dire dei Giudici Superiori è compito del giudice, “ nell’interpretare un testamento,  di individuare l’effettiva volontà del de cuius” anziché limitarsi ad una interpretazione letterale delle espressioni usate.

La Suprema Corte di Cassazione con sentenza n.12242 del 30 maggio 2014 ha così deciso: “ … Occorre premettere che, nell’interpretazione del testamento, il giudice deve accertare, secondo il principio generale di ermeneutica enunciato dall’art. 1362 c.c., applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in  materia testamentaria, quale sia stata l’effettiva volontà del testatore comunque espressa, considerando congiuntamente ed in modo coordinato l’elemento letterale e quello logico dell’atto unilaterale mortis causa, salvaguardando il rispetto, in materia, del principio di conservazione del testamento.
Tale attività interpretativa del giudice del merito, se compiuta alla stregua dei suddetti criteri e con ragionamento immune da vizi logici, non è censurabile in sede di legittimità (Cass. 14.10.2013, n. 23278; Cass. 14.1.2010, n. 468; Cass. 21.2.2007, n. 4022; Cass. 11.4.2005, n. 7422).
In proposito, questa Corte ha avuto modo di rilevare che l’interpretazione del testamento è caratterizzata, rispetto a quella del contratto, da una più penetrante ricerca, al di là della mera dichiarazione, della volontà del testatore, la quale, alla stregua delle regole ermeneutiche di cui all’art. 1362 c.c. (applicabili, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria), va  individuata sulla base dell’esame globale della scheda testamentaria, con riferimento, essenzialmente nei casi dubbi, anche ad elementi estrinseci alla scheda, come la cultura, la mentalità e l’ambiente di vita del testatore.
Ne deriva che il giudice di merito può attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale, quando si manifesti evidente, nella valutazione complessiva dell’atto, che esse siano state adoperate in senso diverso, purchè non contrastante ed antitetico, e si prestino ad esprimere, in modo più adeguato e coerente, la reale intenzione del de cuius (Cass. 3.12.2010, n. 24637; Cass. 19.1.2005, n. 1079; Cass. 30.7.2004 n. 14548). Nella specie, la Corte di Appello, nel focalizzare correttamente il punto fondamentale della contesa nella ricostruzione della effettiva volontà del testatore, ha maturato il convincimento secondo cui l’intenzione di G.L. era quella di attribuire all’ECA, e quindi agli anziani assistiti dal Comune di Trani, tutta la villa ed il compendio immobiliare di fatto annesso alla stessa (comprensivo del terreno adibito a frutteto e  vigneto), affinchè i fruitori residenti ne potessero godere pienamente in ogni sua parte, senza eccezione alcuna. A tali conclusioni il giudice del gravame è pervenuto sulla base di un percorso argomentativo privo di incongruenze logiche, con cui ha rilevato che il testatore, lasciando in legato all’ECA di Trani “la villa”, aveva piena consapevolezza di inserire in tale disposizione tutte le relative pertinenze, ed anche l’appezzamento di terreno retrostante la villa, adibito a frutteto e vigneto, e “delimitato da un sostanzialmente unico muro perimetrale”, se è vero che lo stesso C.T.U. ha dato atto, nella sua relazione, che, al di là dei vari cancelli che si erano venuti stratificando nel tempo, l’intero complesso “ risulta recintato e ben definito lungo tutti i confini”.
A tale considerazione, basata sul rapporto obiettivo di complementarietà fisica esistente tra il terreno in questione e la villa, costituenti sostanzialmente un unico complesso immobiliare, la Corte territoriale ha affiancato l’argomento di carattere logico, secondo cui il G. (uomo di cultura ed abilitato ad esercitare l’avvocatura, anche se non svolgeva una precisa attività e viveva di rendita), che conosceva il compendio immobiliare meglio di chiunque altro, poiché vi viveva o quanto meno vi aveva vissuto a lungo, ove avesse voluto effettivamente beneficiare il nipote nel senso asserito in citazione, avrebbe espressamente menzionato nel testamento le particelle 173 e 933. La ricostruzione della volontà testamentaria in tal senso operata dal giudice del gravame si sottrae al sindacato di legittimità, essendo stata effettuata nel rispetto delle regole ermeneutiche che regolano la materia e con un ragionamento immune da vizi logici.
E, in realtà, le doglianze mosse dal ricorrente, imperniate sul rilievo della insussistenza di uno stretto rapporto di pertinenzialità tra le particelle adibite a frutteto e vigneto e la villa, si risolvono sostanzialmente nella  richiesta di una diversa valutazione di merito delle disposizioni testamentarie, non consentita in questa sede; e vertono, comunque, su circostanze di per sé non determinanti ai fini della decisione, essendo compito del giudice, nell’interpretare un testamento, quello di individuare l’effettiva volontà de de cuis, al di là del rigoroso significato tecnico-giuridico delle espressioni usate. … ”.

È RISARCIBILE IL DISTURBO PROVOCATO DALL’ABBAIARE DI UN CANE DELLA VICINA DI CASA? SI … QUANDO L’IMMISSIONE DI RUMORE SUPERA IL LIMITE DELLA NORMALE TOLLERABILITA’ ED È CAUSA DI UN DANNO PSICO-FISICO.

By Pronunce

Due coniugi citavano in giudizio la proprietaria dell’appartamento condominiale sito al piano sottostante la loro proprietà adducendo che il latrare di  un cane proveniente da tale appartamento eccedeva i limiti della normale tollerabilità.

Pare che il cane di grossa taglia venisse dalla padrona tenuto costantemente chiuso all’interno dell’appartamento e che, lasciato solo ed incustodito per gran parte del giorno e della notte, abbaiava, ululava e guaiva incessantemente sia nelle ore diurne che nel cuore della notte.

Il Giudice di pace di Pietrasanta dopo aver verificato l’asserita circostanza e preso atto del divieto contenuto nel regolamento condominiale di ospitare negli appartamenti animali che dessero molestia, ordinava alla convenuta di far di tutto per prevenire le possibili “cause di eccitazione del cane, soprattutto nelle ore notturne …” così da ridurre la molestia arrecata.

Tale sentenza, non essendo stata impugnata nei termini concessi dalla legge, passava in giudicato e diventava definitiva.

Come tutte le vicende che riguardano beghe di vicinato – che a dire il vero a volte esasperano più di altre perché costantemente “sotto gli occhi” o meglio dire, in questo caso, “orecchi” –  non si esauriscono con un semplice richiamo: così la coppia di coniugi asseritamente danneggiata ricorre al Tribunale di Lucca, competente per valore,  per sentire condannare la vicina di casa proprietaria del cane a pagare un giusto risarcimento del danno subito.

I due coniugi denunciano, infatti, un “ intollerabile turbamento del bene della tranquillità” ed una “ persistente lesione del diritto alla salute” che si era tradotta nell’insorgenza di “ disagi di natura psico-fisica dovuti all’impossibilità di dormire un adeguato numero di ore, di rilassarsi al ritorno dal lavoro, di svolgere una normale e serena vita familiare e di relazione”.

Con sentenza n.40 del 10 gennaio 2014 il Tribunale di Lucca ha così deciso:
“….La domanda degli attori è fondata e va accolta.
E’ stato accertato, con sentenza del Giudice di pace di Pietrasanta n. 276_/09 in data 10/20 aprile 2009, che le immissioni di rumore nell’appartamento di proprietà degli attori provocate dall’abbaiare continuo del cane  nell’appartamento di proprietà della convenuta, sottostante a quello degli attori, superavano la normale soglia di tollerabilità, in quanto l’abbaiare del cane non era occasionale, ma continuo sia di giorno che di notte, talvolta anche fino a tarda ora, e l’immissione rumorosa conseguente era estremamente fastidiosa, come riferito concordemente dai vari testimoni ascoltati dal giudice di pace e risultante altresì dalla mancata risposta della convenuta all’interrogatorio formale alla stessa deferito (v. sentenza prodotta dagli attori, doc. 1). Dunque, non essendo stata impugnata la citata sentenza ed essendo divenuta irrevocabile (circostanza non contestata), non può più mettersi in discussione quanto dalla medesima sentenza accertato, cioè l’intollerabilità ex art. 844 c.c. delle immissioni di rumore provenienti dall’appartamento della [ convenuta].
Ciò detto, quanto all’azione risarcitoria proposta in questa sede dagli attori, dopo che il Giudice di Pace di Pietrasanta si era dichiarato incompetente per valore sulla stessa (v. sentenza cit, pag. 2), la domanda appare fondata risultando provato che, in conseguenza delle immissioni rumorose subite, [ i coniugi attori]abbiano riportato danni alla loro integrità psico-fisica, risarcibili ai sensi dell’art. 32 Cost. e art. 2059 c.c.
Invero, si rientra in tal caso nello schema dell’azione generale di risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c. (Cass. 5844/2007) e, trattandosi di danno che incide su un diritto inviolabile della persona, il superamento dei limiti di tollerabilità delle immissioni può essere apprezzato quale danno ingiusto, oltre che a fini inibitori, a fini risarcitori, unitamente alla presenza degli altri elementi del giudizio aquiliano (Trib. Milano 23 settembre 2008).
Quanto alla presenza degli altri elementi di cui all’art. 2043 c.c., la ricorrenza nella specie di una condotta colposa della convenuta si ricava, a parere di questo Giudice, dalla sentenza n. 276/09 del Giudice di Pace di Pietrasanta sopra richiamata, laddove in questa si accertano l’abbaiare continuo del cane anche in ora notturna nell’appartamento della convenuta e le conseguenti immissioni di rumore molto fastidiose nell’appartamento degli attori, eventi che non possono non ascriversi ad un comportamento negligente ed imprudente della [ convenuta], che lasciava il cane da solo nel suo appartamento anche nelle ore notturne senza curarsi dei pregiudizi arrecati ai suoi vicini dal continuo abbaiare dell’animale.
Circa il nesso causale tra immissioni di rumore e danni patiti dagli attori, sul punto si è espresso il C.T.U. Dr. … con dovizia di argomenti, che possono così riassumersi: solo quando i rumori superano la normale soglia di tollerabilità si può parlare di lesione psichica, incidente come tale sul danno psichico; nel caso degli attori l’esposizione all’evento stressante per cui è causa e la rielaborazione delle situazioni di vita conseguenti a tale fatto “ingiusto” hanno determinato lo sviluppo di un episodio di malattia con caratteristiche sintomatologiche a comune con quelle tipiche del Disturbo dell’Adattamento con ansia, a seguito del quale, tenuto conto della persistenza per un periodo di più di 6 mesi dei sintomi di reazione all’evento stressante, si è prodotto un danno biologico di natura psichica valutabile, per il [ marito], nell’ordine dell’8% e, per la [ moglie], nell’ordine del 10%; detta valutazione resta ferma anche di fronte alla “preesistenza” dei due periziandicaratterizzata per il [ marito]  da una significativa labilità timica con oscillazioni del tono dell’umore tipiche dei temperamenti premorbosi affettivi di tipo ciclotimico ed irritabile e per la [ moglie], da elementi personologici di tratto caratterizzati da ansietà e tendenza alla rimuginazione, con precedente  sperimentazione di episodi a carattere ansioso-depressivo reattivi ad eventi vitali, poiché in relazione alla condizione sintomatologica di rilievo clinico sopra descritta gli attori sono dovuti ricorrere a nuova consultazione specialistica, dopo un periodo di quiescenza sintomatologica in cui non avevano assunto terapia farmacologica, e sono stati loro prescritti trattamenti terapeutici (con stabilizzanti dell’umore e antidepressivi) da assumere in maniera continuativa (v. le due relazioni del C.T.U. Dr. D.D. in data 11 novembre 2011).
Le valutazioni del C.T.U. appaiono congrue ed esaurienti … sicché … possono essere poste a base della presente decisione.
Procedendo alla quantificazione del danno alla stregua delle risultanze peritali, nonché adottando come parametro di liquidazione le tabelle del Tribunale di Milano aggiornate al 2013, come autorevolmente sostenuto in materia dalla giurisprudenza di legittimità, si ottengono per gli attori, a titolo di danno biologico (o non patrimoniale alla persona) permanente, le seguenti somma: Euro 14.160,00 per il  [ marito]  ed Euro 20.723,00 per la [ moglie].
Non è riconoscibile in favore degli attori  un’ulteriore voce di danno a titolo di danno morale, distinta da quella del danno biologico, trattandosi di una duplicazione dell’unica ed unitaria categoria del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. (Cass. Sez. un. 26972/2008). Vi sono, poi, le spese mediche documentate dagli attori, per l’importo di Euro 163,62 quanto al [ marito]   e di Euro 81,81 quanto alla [ moglie] … : pertanto, l’importo complessivo del risarcimento spettante al [ marito] è pari a Euro 14.323,62 e quello spettante alla [ moglie] è pari a Euro 20.804,81.
…  Omissis …”.

LA RELAZIONE DI UN INVESTIGATORE NOMINATO DAL MARITO DEVE CONSIDERARSI PER LA CASSAZIONE PROVA LECITA ED IDONEA A DIMOSTRARE NEL PROCESSO DI SEPARAZIONE LA VIOLAZIONE…

By Pronunce

LA RELAZIONE DI UN INVESTIGATORE NOMINATO DAL MARITO DEVE CONSIDERARSI PER LA CASSAZIONE PROVA LECITA ED IDONEA A DIMOSTRARE NEL PROCESSO DI SEPARAZIONE LA VIOLAZIONE DEL DOVERE DI FEDELTA’

Ciò è quanto emerge dalla sentenza n. 11516 del 23 maggio 2014 pronunciata dalla Sez. I della Corte di Cassazione che ha trattato la vicenda di due coniugi in fase di separazione.

Con sentenza del 23 agosto 2012, la Corte d’Appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Modena, aveva dichiarato l’addebito della separazione alla moglie, escludendone il diritto all’assegno di mantenimento e dichiarando inammissibile la domanda di  alimenti proposta dalla medesima, per il resto confermando la sentenza di primo grado.
La Corte aveva ritenuto che l’addebito della separazione derivasse dalla prova documentale della violazione del dovere di fedeltà, acquisita mediante la relazione investigativa ed i tabulati telefonici depositati in atti, i quali palesavano una relazione extraconiugale della moglie in epoca anteriore alla sua domanda di separazione; né questa aveva provato l’anteriorità della crisi coniugale, posto che i generici litigi fra i  coniugi, dalla stessa dedotti, rappresentano accadimenti  fisiologici nella vita di coppia inidonei da soli a configurare l’intollerabilità della convivenza, mentre la circostanza dell’uso di camere separate non appariva giustificata dalla dedotta ragione della esistenza di una convivenza solo formale.

La Suprema Corte investita della questione dalla moglie ha, fra le altre cose, stabilito che “… quanto all’utilizzo della relazione investigativa redatta da tecnico incaricato da una delle parti del giudizio, la liceità di tale condotta è stata da questa Corte reiteratamente affermata: così, nell’ambito dei rapporti di lavoro, ove è consentito al datore di incaricare un’agenzia investigativa al fine di verificare condotte illecite da parte dei dipendenti.
Nel contesto della materia familiare, parimenti il ricorso all’ausilio di un investigatore privato è ammesso da questa Corte, laddove ne ha soltanto dichiarato la non ripetibilità delle spese.
Nella specie, la corte d’appello ha ritenuto che la violazione del dovere di fedeltà, comprovata da tali documenti, fosse poi anteriore (estate 2003) alla domanda di separazione (novembre 2003), sulla base delle date risultanti dai tabulati telefonici e dalle fotografie: dunque, essa ha attribuito rilievo a dati del tutto oggettivi, non alle mere deduzioni dell’investigatore privato incaricato.

E’ bene sottolineare che il tema è tutt’altro che lineare come potrebbe sembrare dalla lettura di questo passo. Ricordiamo infatti che la relazione investigativa è un  argomento di prova fornito da una delle parti e non acquisito nel contraddittorio. La prova si forma nel processo: quindi non sarebbe sufficiente per chi vuole utilizzare la relazione investigativa limitarsi a produrla e magari chiamare semplicemente l’investigatore a “confermarla” in giudizio. Il rapporto fa riferimento a fatti e quei fatti vanno provati in maniera circostanziata e chiara. Pertanto è da considerarsi, ad esempio,  valida come fonte documentale di prova- alla stregua della sentenza della Cassazione in commento-  quella relazione investigativa che si basi su dati o supporti tecnici oggettivi, in grado di dimostrare il contesto spaziale, temporale e personale in cui il fatto è accaduto (es. fotografia che riporta indicazione della data e dell’ora in cui è stata scattata). Ricordiamo ancora, fra l’altro, che questa prova può fare ingresso nel processo unicamente laddove non illecita perché acquisita in violazione delle norme a tutela dei diritti della persona, di immagine e della riservatezza (si pensi ai filmati rubati dell’incontro di due amanti o ai dati acquisiti attraverso la sottrazione della corrispondenza dell’altro coniuge).

INCIDENTE STRADALE MORTALE. MASSIMALE DI POLIZZA INCAPIENTE. CONDANNA dell’Assicurazione ultra massimale per mala gestio

By Casi

INCIDENTE STRADALE MORTALE. MASSIMALE DI POLIZZA INCAPIENTE. CONDANNA dell’Assicurazione ultra massimale per mala gestio.

Nell’anno 2009, mentre si recava a lavoro, un giovane perdeva la vita a seguito di un gravissimo incidente stradale occorso sulla Strada Vigentina in Località Pontelungo di Vidigulfo (PV), in occasione del quale, altresì, decedeva un altro soggetto trasportato sull’auto investitrice e un altro ancora riportava  gravissime lesioni.
Gli Agenti della Polizia Stradale di Pavia, intervenuti sul posto, si curavano dei soccorsi e, in particolar modo, della ricostruzione della dinamica della tragedia.
Sin dai primissimi momenti emergeva che l’autoveicolo condotto dal giovane che stava recandosi a velocità moderata sul posto di lavoro era stato violentemente colpito da altro veicolo, guidato da persona sotto l’influenza di alcol e sostanze stupefacenti, proveniente dal senso opposto di marcia che nell’intento di realizzare un improbabile sorpasso effettuava una manovra azzardata e ad elevata velocità.

La vedova, giovane madre di due figlie minori, affidava all’avv. Luigi Lucente l’incarico di occuparsi della tutela dei loro diritti gravemente pregiudicati.

Questa causa è emblematica di un sistema che non protegge compiutamente le vittime della strada, sebbene sia il processo penale che il processo civile si siano conclusi con delle sonore condanne, ma probabilmente non sufficientemente punitive a causa di evidenti storture normative.

Infatti, il conducente dell’auto investitrice ( persona ubriaca e sotto l’influenza di sostanze stupefacenti al momento del sinistro) si è reso irreperibile! E per ciò è stato condannato in contumacia e senza metterci la faccia e il portafogli in un sistema che ancora aspetta a introdurre per fattispecie di questo genere – sempre  più all’ordine del giorno- il reato di “omicidio stradale”.

Inoltre, la Compagnia assicuratrice del mezzo investitore citata in giudizio, nel costituirsi, ha eccepito, che la polizza RCA a copertura del veicolo investitore aveva massimale unico di soli € 1.500.000,00, che a seguito della notifica dell’atto di citazione che ha dato origine al procedimento era stato depositato su un conto corrente fruttifero vincolato a tutti i soggetti che avevano chiesto un risarcimento in conseguenza del sinistro di cui è causa.
Anche questa dunque una ulteriore beffa per i superstiti danneggiati, a causa di un sistema normativo lacunoso e carente che all’epoca consentiva di assicurarsi per la Responsabilità Civile Auto obbligatoria con un massimale così risibile: paghi un premio minore e ti assicuro per un massimale minore! Peccato che a farne le spese erano ( e in questo caso, sono) le vittime. Paradossalmente sarebbe stato meglio che l’investitore non avesse avuto la copertura assicurativa o non fosse stato identificato cosicché il Fondo Vittime della Strada avrebbe pagato per l’intero!!!

In ogni caso, il soggetto investitore, autore di una manovra scellerata che ha portato alla morte di due persone e una sulla sedia a rotelle, è stato condannato per omicidio colposo nel processo penale.

Nel processo civile sono state totalmente accolte le domande di risarcimento svolte nell’interesse della vedova e delle figlie minori.

Interessante in quest’ultimo procedimento l’accoglimento della domanda svolta nell’interesse della vedova e delle due figlie minori di condanna per mala gestio della Compagnia di assicurazioni e quindi di pagamento a carico della medesima e ultramassimale ( e cioè oltre € 1.500.000,00 previsto da polizza) della rivalutazione monetaria, degli interessi e delle spese legali e processuali.

La Compagnia sul punto si era difesa dicendo che aveva messo a disposizione immediatamente e  ante litem il massimale di polizza di € 1.500.000,00 e che tale offerta avrebbe dovuto avere effetto liberatorio con riguardo a capitale, interessi e spese, per cui la domanda di mala gestio andava respinta.

Nella realtà dei fatti, tuttavia, è stato provato che, dopo nove mesi dalla prima raccomandata formulata nell’interesse della giovane vedova e delle sue figliuole, e, quindi, più che trascorsi i termini di legge perché l’Assicurazione formulasse un’offerta, a fronte dell’incomprensibile indifferenza e silenzio della Compagnia, le attrici si vedevano, necessariamente, costrette ad adire – in virtù delle norme sulla competenza per valore e per territorio – l’Ufficio del Tribunale di Pavia. Finalmente, solo a distanza di quasi un anno dal sinistro e più di due mesi dalla notifica dell’atto di citazione (!!!), la Compagnia si degnava di inviare alle danneggiate – moglie e figlie del giovane investito mentre si recava a lavoro-  una raccomandata con cui le notiziava PER LA PRIMA VOLTA:
–  dell’esistenza di un massimale minimo di € 1.500.000,00;
– della presenza di ben 24 potenziali danneggiati;
– e, infine, del fatto, che solo in quel momento, l’intera somma portata dalla polizza era stata versata su un conto corrente fruttifero.

Peraltro, è stato provato che la Compagnia, avendo ricevuto sin da subito ulteriori richieste di risarcimento danni dagli altri danneggiati da questo tragico sinistro, era in condizioni di sapere dopo un mese dal fatto dannoso e, conti alla mano, che ,  il massimale era già incapiente.

In base a quanto prescritto dal’art. 140 Cod. Ass., la Compagnia aveva il dovere di attivarsi con tutti i mezzi possibili per promuovere un accordo fra i vari danneggiati, fruendo di quella posizione di imparzialità in cui versa il debitore rispetto ai destinatari del pagamento, e solo, nell’ipotesi di non accettazione da parte dei singoli danneggiati, delle quote di risarcimento determinate e valutate  in relazione ai danni subiti, l’assicuratore poteva provvedere all’offerta reale di cui all’art. 1209 c.c. (G. Franco, “Infortunistica stradale, Guida alle controversie civili”, terza edizione, Vol. II, Giuffrè Editore, pag. 2441).
Invece, nel caso di specie, la Compagnia di Assicurazione aveva, addirittura, omesso di informare le attrici dell’esistenza di un massimale incapiente e della presenza di 24 potenziali danneggiati, una circostanza che, di per sé, dimostrava come la Compagnia si fosse completamente disinteressata della gestione di questo sinistro per ricordarsene solo quando le odierne attrici le avevano fatto causa!
Non vi era dubbio, quindi, che la Compagnia convenuta, con la sua inerzia, si fosse resa inadempiente nei confronti della vedova e delle sue figlie, e, pertanto, avrebbe dovuto rispondere ultramassimale delle “maggiori somme dovute per l’accumulo di interessi, della svalutazione monetaria e delle spese processuali, imputabile al ritardo dell’assicuratore e perciò dipendenti, ai sensi dell’art. 1224 c.c., da un’autonoma causa di debito dell’assicuratore verso i danneggiati, del tutto svincolata dalla limitazione rappresentata dal massimale di polizza”.
Si confidava che l’Ecc.mo Tribunale di Pavia volesse attentamente valutare l’aspetto da ultimo trattato, in quanto se era già di per sé ingiusto che, in un sistema civile, fosse consentito che 24 danneggiati dovessero dividersi un massimale ridicolo e, quindi, accontentarsi di “briciole”, sarebbe stato oltremodo offensivo che la vedova e le sue figlie si vedessero privare degli interessi e della rivalutazione sugli interi danni, nonché gravate delle spese legali del proprio difensore che, così,  sarebbero andate a ridurre ulteriormente il loro risarcimento.

Con la sentenza del 8.5.2014 n. 657/2014  il Tribunale di Pavia, Sezione III Civile,  ha accolto la tesi difensiva esposta dall’ Avv.to Luigi Lucente in favore delle proprie assistite motivando in questi termini:
Deve essere accolta la domanda di mala gestio impropria nei confronti della [ Compagnia di assicurazioni].
Infatti è provato che [ tredici giorni dal fatto]  il legale dell’attrice inoltrava la prevista domanda di risarcimento all’assicurazione.
Essa [ sempre entro un mese dal fatto ] riceveva analoga richiesta di risarcimento da congiunti [ dell’altra persona deceduta nell’incidente].
Quindi già da quel momento – ancor prima della scadenza dei 90 giorni di cui all’art. 145 d.lvo 209/05 – l’assicurazione era a conoscenza dell’incapienza del massimale. Nonostante ciò non forniva alcuna comunicazione all’attrice se non con comunicazione … dopo la notifica dell’atto di citazione … con la quale riferiva di aver depositato l’intero massimale su un conto fruttifero a disposizione della pluralità dei danneggiati.
Posto che la mala gestio impropria si sostanzia “in un comportamento dell’assicuratore ingiustificatamente dilatorio, a fronte della richiesta di liquidazione avanzata dal danneggiato, trascorso il termine di cui alla L. n. 990 del 1969, art. 22 (e, attualmente, i termini di cui al D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 145), alla cui scadenza l’assicuratore è da considerarsi in mora, sempreché sia stato posto in grado con la detta richiesta di determinarsi in ordine all’an e al quantum della somma dovuta a titolo di risarcimento” – Cass. 15397 del 28.6.2010- (anche n. 19919 del 18.7.2008), nel caso specifico, l’assicuratore poneva in essere un ritardo ingiustificato nel porre a disposizione dei danneggiati l’intera somma assicurata, pur sapendo sin dai primi elementi a sua disposizione la palese responsabilità nella causazione del sinistro del conducente dell’auto dal medesimo assicurata, nonché … [a due mesi dal fatto] …  la presenza di una pluralità di danneggiati e la prevedibile incapienza del massimale. Tale ritardo nella messa a disposizione dello stesso non era neppure dovuto ad un tentativo di trovare un accordo fra tutti i danneggiati, neppure tentato dalla compagnia assicuratrice.
Conseguentemente, stante l’ingiustificato ritardo nel mettere a disposizione dei danneggiati la somma, l’assicuratore dalla scadenza dei 90 giorni previsti dall’art. 145 d.lvo citato si trovava in mora essendo obbligato “oltre al limite del massimale, a titolo di responsabilità per inadempimento ex art. 1224 c.c., senza necessità, quindi, di altra prova del danno, quanto agli interessi maturati sul massimale per il tempo della mora ed al saggio degli interessi legali e, oltre questo livello, in presenza di allegazione e  prova (se del caso, mediante ricorso a presunzioni) del “maggior danno” di cui al cit. art. 1224, comma 2” – sentenza sopracitata – …
La domanda deve essere accolta solo nei confronti [ della vedova ] in proprio e come genitore delle figlie minori … [ con condanna della Compagnia ] a pagare, ultramassimale … gli interessi maturati sul massimale [ di € 1.500.000,00 ] per il periodo della mora … e a pagare, ultramassimale … le spese legali … oltre 15% per spese generali, oltre l’esborso per il contributo unificato, oltre IVA e CPA, nonché le spese di CTU e CTP”

Rivista TECNICA OSPEDALIERA – Informazione al paziente: non solo dovere, ma opportunità per un rapporto di fiducia

By Pubblicazioni

«Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato», recita l’art. 5 della Convenzione di Oviedo. Enunciazione pressoché tautologica, se non fosse che nella realtà dei fatti si presta a non pochi fraintendimenti per l’assenza di chiarezza nei colloqui interlocutori e di spiegazioni, in linguaggio corrente, del trattamento sanitario da seguire. E ciò, peraltro, rischia di minare alla radice il rapporto di fiducia medico-paziente.

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RAGAZZO PERDE UN RENE a causa del non corretto intervento di pielotomia retrograda

By Casi

RAGAZZO PERDE UN RENE a causa del non corretto intervento di pielotomia retrograda. Il Tribunale di Milano condanna il chirurgo e la Casa di Cura a risarcire i danni.

Con atto di citazione a firma dell’avvocato Luigi Lucente, un giovane cliente nel mese di giugno del 2009, ha chiamato in giudizio avanti il  Tribunale di Milano il chirurgo e l’Istituto clinico affinché fosse accertata e dichiarata la responsabilità di questi ultimi in ordine agli esiti negativi dell’intervento chirurgico al quale era stato sottoposto in data 4 aprile 2008.
A  sostegno della domanda, veniva dedotto : che in data 03.04.2008 il giovane veniva sottoposto a visita, trattenuto e ricoverato presso il reparto di Urologia dell’Istituto Clinico; che in pari data lo stesso veniva visitato dal chirurgo, il quale decideva di sottoporlo, il giorno successivo, ossia il 04.04.2008, ad intervento chirurgico di endopielotomia retrograda, senza tuttavia eseguire in fase pre operatoria e/o intra operatoria  esami diagnostici atti a stabilire il decorso della vascolarizzazione dei vasi perirenali e il corretto approccio terapeutico da seguire; che nel corso del ridetto intervento di endopielotomia retrograda al giovane paziente veniva reciso un vaso con conseguente “shock emorragico da versamento ematico perirenale”, in conseguenza del quale alle ore 24.00 del 04.04.2008  veniva sottoposto, sempre presso il medesimo Istituto Clinico, ad intervento di “nefrectomia di salvataggio” del rene sinistro.

In sintesi, dunque, e per parte attrice, l’aver omesso di eseguire esami diagnostici preliminari e il non avere adottato un corretto approccio chirurgico nel corso dell’intervento, hanno senza dubbio causato al paziente le infauste conseguenze emorragiche e, così ,la perdita del rene sinistro alla giovane età di 22 anni, con rischio concreto in itinere di morire.

Il medico operatore a sua difesa ha dichiarato che in realtà avrebbe fatto un ecodoppler preoperatorio dei vasi renali al fine di verificare l’eventuale presenza di vasi anomali sul giunto pielouretrale ma non disponeva del referto in quanto era stato consegnato al paziente e perciò produceva una dichiarazione in giudizio di un collega dello stesso Istituto Clinico che attestava sotto la propria responsabilità di ricordare sia di avere effettuato l’esame sul paziente e anche l’esito dell’accertamento.

Naturalmente, tale documento è stato immediatamente contestato dall’avv. Lucente perché evidentemente privo di dignità. Come specificato non trattavasi, innanzitutto, di un referto, ma di una dichiarazione resa da un collega del convenuto che a distanza di ben 10 mesi  dalla presunta effettuazione dell’esame ricordava chiaramente sia il nome del paziente che l’esito dell’esame il che è apparso evidentemente alquanto singolare(!), ma anche perché, se un tale esame fosse stato realmente eseguito, il relativo referto sarebbe stato a suo tempo allegato alla cartella clinica del paziente costituendo –l’esame stesso- il presupposto per poter effettuare l’intervento descritto con tecnica endoscopica e dal momento che, fra l’altro, secondo la stessa dichiarazione prodotta dal medico a sua difesa, il predetto esame sarebbe stato effettuato proprio il giorno prima dell’intervento(!).

Sia i Consulenti nominati dal Tribunale e, così, anche il Giudice non hanno, infatti, tenuto conto della dichiarazione prodotta dal medico.

Il medico convenuto, inoltre, nella propria difesa ha aggiunto: “…[ poiché] sembra quasi  che l’attore ( paziente) si dolga di essere stato operato in assenza di ragioni di urgenza: l’intervento venne praticato in quanto, pur non sussistendo ragioni d’urgenza, neppure sussisteva alcuna ragione, di alcun genere, perché fosse opportuno o necessario rinviarlo … “ e ha concluso, precisando che: “ E’ appena il caso di sottolineare che la perdita di un rene non inibisce, a chi la subisca, la possibilità di mantenere una condizione di vita assolutamente normale.

Con la sentenza del 15.05.2014 n. 6380/2014  il Tribunale di Milano, Sezione V Civile,  ha accolto la tesi difensiva esposta dall’ Avv.to Luigi Lucente in favore del proprio assistito motivando in questi termini: “… nel merito i ctu nominati, effettuata accurata analisi dell’anamnesi prossima ed esaminate le ct di parte, hanno svolto ampie considerazioni cliniche e medico-legali sul caso, per concludere che il trattamento clinico, che portò alla prima operazione per via endoscopica, di “pielotomia retrograda”, non fu condotto, dalla fase diagnostica preoperatoria fino alla fase chirurgica, in maniera corretta.
L’intervento predetto era indicato per la patologia diagnosticata (stenosi del giunto pieloureterale sinistro … ), ma non fu eseguito a regola d’arte.
I ctu hanno in particolare sottolineato che, prima di optare per l’intervento endoscopico, sarebbe stato più prudente effettuare ulteriori accertamenti diagnostici strumentali, al fine di avere la più completa nozione anatomica della regione operatoria.
Le complicanze emorragiche in questo tipo di interventi si verificano infatti per lesione di arterie o vene decorrenti in prossimità del giunto pielo uretrale. Sarebbe stata perciò consigliata l’esecuzione di arteriografia o altro esame di imaging; ciò avrebbe consentito di sostituire l’intervento in via endoscopica con un intervento a cielo aperto o in laparoscopia per una migliore visione e preservazione delle strutture.
Inoltre i ctu hanno rilevato che le condizioni generali del soggetto avrebbero permesso di differire il trattamento, con possibilità di effettuare esami (scintigrafia renale sequenziale) orientali  a stabilire la funzione renale separata.
In definitiva la metodica endoscopica comportò il sezionamento  della porzione ristretta della via pieloureterale urinaria con energia diatermica sotto visione diretta interna e la complicanza gravemente emorragica costituì l’evoluzione clinica e quindi la conseguenza di tale manovra, con ogni probabilità incongrua, tale da provocare lesioni meccaniche.
Quanto al secondo intervento, di nefrectomia, effettuato d’urgenza, da considerare irrinunciabile, per salvare la vita del paziente, fu eseguito  a regola d’arte.
Il sacrificio del rene … fu la conseguenza del non corretto intervento di pielotomia retrograda e pertanto il relativo danno biologico redisuato è da imputare ai due convenuti, sanitario e struttura.
Delle conseguenze dannose subite da … devono rispondere entrambi i convenuti, il dott. … quale chirurgo operatore, e l’Istituto … , quale titolare di autonomo rapporto (contratto di spedalità).
Come ha più volte rilevato la suprema Corte (Cass, da n. 589/99 a n. 577/08), il rapporto tra la struttura sanitaria ed il paziente si instaura indipendentemente dal vincolo di dipendenza o meno del medico curante, con la conseguenza che l’Istituto [ clinico] risponde comunque in proprio, ex art. 1228 cc, del fatto del proprio ausiliario, pur non dipendente, in quanto, come contraente, non ha fornito la prova del proprio adempimento.
Considerata l’età del [ paziente] all’epoca del fatto, di circa 21 anni, e la personalizzazione, in ragione delle limitazioni imposte al suo stile di vita, in specie per facile stancabilità e mal di schiena frequente, gli viene attribuita, a titolo di invalidità permanente, quale danno non patrimoniale, la somma di €. 50.000,00, ai valori attuali. 
…”

MERITA DI ESSERE GIUSTAMENTE RISARCITA LA PAURA CAUSATA DALLA DIAGNOSI – POI RIVELATASI ERRATA – DI UN CANCRO IN FASE METASTATICA

By Pronunce

ERRATA DIAGNOSI DI CANCRO INCURABILE AL RENE IN FASE METASTATICA. IL TRIBUNALE DI PALERMO CONDANNA L’OSPEDALE  A RISARCIRE IL DANNO MORALE ED ESISTENZIALE PER I GIORNI IN CUI LA MALCAPITATA PAZIENTE HA CREDUTO DI AVERE POCHI MESI DI VITA

Seppur in assenza di un danno biologico, la sentenza del Tribunale di Palermo, Sez. I Civile, del 19 marzo 2014 n. 1579 in commento, ha riconosciuto la sussistenza di un danno “morale ed esistenziale” in capo ad una giovane signora di 58 anni che per ben 16 giorni ha vissuto con l’angoscia di avere pochi mesi di vita a causa di un brutto male, quando invece si trattava di una probabile pleuropolmonite virale senza evidenza, nel liquido pleurico, di alcuna componente di cellule maligne. La diagnosi errata eseguita presso una Azienda Ospedaliera di Palermo, poi totalmente ribaltata dalle successive analisi cui la Signora venne sottoposta presso l’Istituto Oncologico Europeo di Milano, rappresenta per il Tribunale un “errore non scusabile in quanto può danneggiare, a volte irreparabilmente, la psiche del paziente e del proprio nucleo familiare, negando il diritto alla serenità e tranquillità familiare”.
Per questo errore, il Giudice ha stabilito che alla Signora vanno corrisposti €. 600,00 al giorno per 16 giorni oltre gli interessi e le spese legali.

(segue) VACANZE SOLO DA SOGNARE… È PROPRIO IL CASO DI DIRLO! CONSUMATORE ATTENZIONE: cosa e chi si può nascondere dietro l’offerta di una allettante vacanza premio?

By Casi

Giustizia è stata fatta: sentenza Tribunale di Monza 20.05.2014

Ci eravamo lasciati, ormai 3 anni fa, a gennaio del 2011, all’inizio del giudizio ordinario che i Sig.ri B. con il patrocinio del sottoscritto Legale, convinti delle proprie ragioni, avevano  incardinato nonostante l’esito sfavorevole del reclamo in fase cautelare.
Con la promessa che vi avremmo tenuti aggiornati sugli sviluppi della vicenda.

Ebbene, siamo orgogliosi di far sapere a tutti i lettori interessati all’argomento che pochi giorni fa, precisamente il 20 maggio 2014, è stata pubblicata dal Tribunale di Monza la sentenza che ha concluso il richiamato processo e che ha accolto tutte le domande dei Sig.ri B..

Ricordiamo brevemente che i Sig.ri B. avevano convenuto in giudizio la Società Torinese R. S.r.l. e un noto Istituto finanziario chiedendo venisse, innanzitutto, dichiarata la nullità-  per violazione dell’art. 1346 c.c. – del contratto di compravendita stipulato tra il medesimo Sig. B. e R. s.r.l. avente ad oggetto l’acquisto di un “certificato di associazione” che avrebbe dovuto attribuire al titolare il diritto, alienabile e trasmissibile agli eredi, di godere di una settimana di vacanza in uno dei complessi turistici residenziali facenti parte del circuito turistico che pubblicizzavano.
In considerazione del ritenuto collegamento funzionale con il contratto stipulato con R. s.r.l., gli attori avevano poi chiesto la dichiarazione di inefficacia del contratto di mutuo da entrambi sottoscritto con la Banca, con conseguente condanna dell’istituto di credito a restituire i ratei sin qui pagati dai mutuatari.
Malgrado la ritualità della notifica, la R. srl. preferiva non partecipare al processo, e così,  rimanere contumace, disertando anche l’udienza fissata per l’interrogatorio formale del suo legale rappresentante.
Si costituiva, invece, la Banca chiedendo il rigetto di ogni pretesa avversaria, in quanto infondata.

Ecco qui di seguito, per chi fosse interessato ai dettagli, le motivazioni della decisione del Giudice del Tribunale di Monza, nella quale, per ragioni di privacy, sono stati omessi i nomi dei soggetti coinvolti:

“[…] è documentale e incontestata in causa la circostanza che il Sig. B. abbia sottoscritto con R. s.r.l. [la società del torinese] un contratto di compravendita (doc. l attori), avente ad oggetto “il diritto inalienabile e trasmissibile agli eredi di occupare, godere e utilizzare il modo pieno ed esclusivo, per il periodo di una settimana all’anno una suite/appartamento in uno dei complessi turistici residenziali facenti parte del “New Club Elite”… “Diritto da usufruire” in periodi settimanali ricompresi tra le settimane n. 1 e n. 52 di ogni anno solare” da stabilire annualmente previa comunicazione alla società di gestione, al prezzo e alle condizioni generali allegate, verso corrispettivo di euro [omissis…] (doc. l).
La focalizzazione del vago oggetto contrattuale non è agevolata dal tenore delle condizioni generali ai sensi delle quali è stabilito che “l’Acquirente potrà altresì utilizzare la propria settimana di vacanza con moltissimi resorts, ubicati in tutto il mondo, grazie all’affiliazione del  “New Club Elite Limited” al ’”Circuito …omissis” (art. 6).
Ed ancora, nella parte dedicata alla tipologia di settimane, si rinviene che “i turni di godimento vanno dall’1 gennaio al 31 dicembre. Il sistema di prenotazione prevede la comunicazione della date desiderate al booking che garantirà i periodi prescelti secondo disponibilità” mentre invece, nel resoconto contrattuale, è indicato che il periodo dell’ anno prescelto sarà quello “rosso” senza ulteriori precisazioni. […]
Ciò posto, la domanda attorea va sicuramente accolta per quanto riguarda il contratto stipulato tra il Sig. B. e R. s.r.l., in quanto affetto da nullità ex art. 1346 c.c. La pattuizione rientra nell’ ormai nota categoria di contratti che consentono di acquistare o, comunque, di fruire di periodi di vacanza – generalmente della durata di una settimana – in regime comunemente denominato di multiproprietà. Per la restante parte dell’anno, l’immobile viene goduto – con la medesima modalità – da altre persone, anch’esse proprietarie o fruititrici. Tale figura contrattuale risulta ormai espressamente disciplinata dal Codice del Consumo (D. Lgs. n. 206/2005), agli artt. 69 e segg., dedicati ai contratti per l’acquisizione di un diritto di godimento ripartito di beni immobili. Esaminando dunque tale specifica disciplina, non può non giungersialla conclusione che il contratto in esame sia radicalmente nullo per violazione degli artt. 70 e 71.
Nella pattuizione, infatti:

1) non sono indicati il diritto oggetto del contratto, con specificazione della natura e delle condizioni di esercizio di tale diritto nello Stato in cui è situato l’immobile;
2) non è contenuta la descrizione dell’immobile e la sua ubicazione, posto che il documento contrattuale si limita a menzionare, in modo del tutto vago, “moltissimi resorts ubicati in tutto il mondo” Ciò preclude la valutazione delle condizioni di adempimento;
3) [non sono indicati] i servizi e le strutture comuni;
4) [non sono indicati] il periodo di tempo durante il quale può essere esercitato il diritto oggetto del contratto e la data a partire dalla quale l’acquirente può esercitare tale diritto, non essendo sufficiente limitarsi a richiamare, come nel caso di specie, un fantomatico periodo stagionale “rosso”.

Si comprende che una simile lacunosità non può determinare la semplice annullabilità del contratto o il riconoscimento della facoltà di recesso dell’acquirente – come ritenuto in altre fattispecie simili ma non sovrapponibili alla presente – determinando invece la nullità radicale della pattuizione. Se è vero, infatti, che l’attuale normativa in vigore – e prima di ciò, il D. Lgs n. 427/98 – fa discendere tale effetto unicamente dalla carenza della forma scritta, è parimenti corretto (come già rilevato da condivisibile giurisprudenza di merito, rif. Trib. Firenze 2 aprile 2004), che tale onere formale, essendo il medesimo rivolto ad assicurare all’acquirente la piena consapevolezza del proprio operato, non è rispettato anche quando nella scrittura non siano adoperati termini o frasi intellegibili, o non siano comunque indicati gli elementi ritenuti necessari dal legislatore.
Ed ancora, si concorda con altra pronuncia di merito secondo cui “la fumosità delle informazioni contenute nella scheda contrattuale … determina con effetto assorbente rispetto alle ulteriori allegazioni dell’attore la nullità del contratto concluso, in quanto, in ipotesi di forma – contenuto, all’omessa indicazione va equiparata (pena un ’elusione inaccettabile del dettato normativo) l’indicazione incompleta o incomprensibile” (rif. Trib. Parma sez. I, sent. n. 1046/2012).
Né si può omettere di sottolineare che la Corte di Cassazione, statuendo in un caso di contratto preliminare di compravendita di multiproprietà sita all’interno di campo da golf di cittadina del litorale laziale, per una ben individuata settimana all’anno, aveva sancito la nullità del contratto ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c., affermando la necessità che la pattuizione individuasse i criteri per la determinazione della quota, “nella sua effettiva misura” dovendo in ogni caso “essere contemplati i criteri per la sua concreta determinazione millesimale, atteso che il godimento turnario dello stesso alloggio da parte dei vari comproprietari in diversi periodi dell’anno incide sulla entità delle rispettive quote di pertinenza (non avendo la stessa incidenza sul piano del godimento di un bene sito ad esempio in una località marina averne la sua disponibilità in una settimana compresa nei mesi di luglio od agosto o piuttosto in altri periodi dell’anno) con i suoi inevitabili riflessi in particolare sul relativo prezzo di vendita e sulla entità della partecipazione alle spese comuni; di qui pertanto la conseguenza che la quantificazione della misura della suddetta quota o comunque la previsione negoziale dei criteri in base ai quali determinarla incidono sulla determinatezza o meno dell’oggetto del contratto stesso” (rif. Cass. n. 6352/2010). Nel caso concreto – ove alle lacune rilevate ai punti da sub 1) a sub 3) che precedono – si aggiunge anche l’omessa indicazione delle località in cui sorgerebbero i resorts e della settimana di fruizione, la nullità risulta essere ancora più conclamata.
Si rammenta, infine, che – come già sottolineato – il contratto in esame potrebbe essere nullo anche per violazione di norma imperativa, da individuare proprio nell’art. 71 del Codice del Consumo in quanto volto a realizzare un interesse indisponibile, vale a dire quello del consumatore di conoscere con esattezza ciò che sta acquistando e gli impegni che sta assumendo.
Qualora, peraltro, non si dovesse condividere detta censura di nullità, il contratto in esame risulta, quanto meno, annullabile ai sensi dell’art. 1439 c.c. posto che il Sig. B. è stato vittima di pubblicità ingannevole, idonea ad indurre in errore un consumatore, quale egli indubbiamente è. L’attore, infatti, è stato convinto a recarsi presso l’hotel “omissis” sul presupposto (falso) di dover solo ritirare un omaggio (vacanza premio, mai ricevuta), mentre invece la prospettazione del premio costituiva il mezzo, ingannevole per convincerlo ad assistere alla promozione ed alla vendita di quella forma di multi proprietà. Sussiste quindi nel caso di specie il dolo determinante, causa di annullamento del contratto ex art. 1439, comma 1, c.c.
Va parimenti sottolineata la condotta di R. s.r.l. la quale, oltre ad essere risultata del tutto inadempiente agli obblighi contrattualmente assunti, è rimasta contumace nel presente giudizio, disertando anche l’udienza fissata per l’interrogatorio formale – con ogni conseguenza ex artt. 116 e 232 c.p.c. – di fatto, volatilizzandosi subito dopo l’incasso del denaro del finanziamento. Il che palesemente dimostra l’inesistenza dell’attività contrattuale, prospettata al pubblico con modalità prive di trasparenza, incompatibili con gli obblighi di tutela del consumatore.

Alla luce di quanto sin qui esposto
quindi, il contratto stipulato tra iSig. B. e R. s.r.l. deve essere dichiarato nullo.

Resta da esaminare il vero nodo problematico della vicenda: quali sianocioè, le sorti del contratto di finanziamento stipulato con “omissis” [la Banca], contratto che, secondo la prospettazione degli attori risulterebbe a sua volta travolto dall’ inefficacia della prima pattuizione.
Si rammenta che tra i Sig. B. e l’Istituto di Credito convenuto risulta pacificamente sottoscritto un contratto avente ad oggetto “richiesta di prestito personale e di carta di credito” (doc. 2 attori). La pattuizione – per l’importo complessivo di euro 12. 363,00 di cui euro 11.500,00 a titolo di finanziamento, oltre a commissioni e premio di assicurazione –  è successiva alla stipula del contratto intercorso tra il Sig. B. e R. s.r.l.. Gli attori hanno provato che contestualmente alla ricezione della somma finanziata (…omissis) veniva saldato l’importo di euro 11.500,00 in favore della Società di viaggi  (…omissis), comsi evince dall’estratto conto prodotto agli atti del Tribunale “. Al riguardo, il tenore del documento è esplicito, indicando anche il numero dell’assegno bancario emesso il (…omissis data dell’assegno) dal Sig. B. in favore di R. s.r.l. e poi da questa società girato per l’incasso, come da addebito del (…omissis data dell’incasso).
La Banca convenuta ha negato in causa la sussistenza del collegamento negoziale, in ciò confortata anche dall’esito del reclamo (doc. 3) proposto avverso il provvedimento emesso ex art. 700 c.p.c. dal giudice di prime cure che aveva invece accolto la domanda attorea, volta ad ottenere la sospensione dell’ obbligo di pagamento delle rate mensili del contratto di prestito personale (doc 10 attori).
Ora, è noto che anche la tipologia dei contratti di finanziamento risulta disciplinata per legge, ai sensi degli artt. 121 e segg. del T.U.B. (Capo dedicato al “Credito ai Consumatori”) per cui si può a buon diritto affermare l’avvenuta tipizzazione della categoria del collegamento negoziale nei contratti stipulati con i consumatori. In particolare, l’attuale art. 121 stabilisce che per contratto di credito collegato” si intende, tra l’altro, un contratto di credito finalizzato esclusivamente a finanziare la fornitura di un bene o la prestazione di un servizio specifici se … il finanziatore si avvale del fornitore del bene o del prestatore del servizio per promuovere o concludere il contratto di credito “, come avvenuto nel caso concreto.
D’altra parte, l’attuale normativa rappresenta la fisiologica evoluzione del principio già sancito dall’art. 8 del D. Lgs. n. 472/98 che prevedeva, in caso di recesso del consumatore, la risoluzione di diritto del contratto di finanziamento concesso da un soggetto terzo (società finanziaria) “in base ad un accordo tra questi e il venditore “.
Il contratto stipulato tra il Sig. B. e R. s.r.l. riserva alla società di viaggi “la facoltà di consentire il pagamento del prezzo a mezzo di società finanziari da Lei indicata, con relativi oneri a carico dell’Acquirente” (art. 3). Nel caso di specie, il collegamento negoziale risulta dunque evidente posto che il contratto dispone che il pagamento della quota da parte dell’acquirente dovrà avvenire solo a mezzo di società indicata dalla venditrice.
Né vale ad escludere tale collegamento la circostanza che la causale del contratto di finanziamento risulti essere viaggi” dovendosi ritenere che proprio l’evanescente formula concepita da R. s.r.l. (” … diritto di … godere e utilizzare in modo pieno ed esclusivoper il periodo di una settimana all’announa suite/appartamento in uno dei complessi turistici residenziali facenti parte del “omissis“) abbia indotto la scelta di una simile locuzione, peraltro idonea a descrivere ciò che R. s.r.l. andava millantando.
Se è vero che la disciplina del T.U.B. prevede la caducazione del contratto di credito solo in caso di risoluzione o recesso dal contratto “a monte”, di fornitura del bene o servizio, non pare fuori luogo – in casi come quello in esame – fare ricorso allo strumento dell’analogia per integrare il diritto scritto.
Una simile soluzione pare coerente con la normativa comunitaria di ispirazione e consente poi di evitare un paradosso inaccettabile, vale a dire che il contratto di finanziamento rimanga valido ed efficace malgrado il ricorrere di gravi ipotesi quali la condotta fraudolenta del fornitore. Si rammenta poi che la giurisprudenza di legittimità è giunta a riconoscere l’esistenza del collegamento negoziale laddove sussista un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi. Pertanto, in caso di collegamento funzionale tra più contratti, glstessi restano conseguentemente soggetti alla disciplina propria del rispettivo schema negoziale, mentre la loro interdipendenza produce una regolamentazione unitaria delle vicende relative alla permanenza del vincolo contrattualeper cui essi “simul stabuntsimul cadent” (Cass. n. 7255/2013).
Nella presente fattispecie, non è contestato che gli operatori di R. s.r.l. fossero in possesso della modulistica già predisposta da “omissis” [la Banca] dovendosi ritenere che il contratto di finanziamento “omissis n. finanziamento” sia stato preordinato allo scopo di addivenire al contratto associativo.
Vero è, d’altra parte, che l’incaricata di R. Srl, recatasi presso l’abitazione degli attori, ha fatto sottoscrivere loro il finanziamento come se lei stessa fosse la rappresentante di un’unica parte contrattuale. In coerenza con tale iter, l’art. 9 del contratto “turistico” prevede che il recesso “validamente dato a R. s.r.l. [la Società del Torinese] comporterà altresì lautomatica risoluzione del contratto di finanziamento a questo collegato .
Pare poi comunque configurabile, in capo all’Istituto di credito, l’onere di non rilasciare la propria modulistica senza alcuna preventiva, adeguata, verifica circa la finalità di utilizzo della stessa. Il nesso sussistente tra i due contratti determina quindi che la pronunzia di nullità del contratto d’acquisto dia luogo ai medesimi effetti su quello di credito al consumo stipulato dal consumatore.
Con la conseguenza che la Banca dovrà restituire agli attori le rate di mutuo sin qui corrisposte mentre dovrà essere la società finanziatrice a chiedere la restituzione della somma versata alla venditrice. Le spese di lite seguono la soccombenza […]

P.Q.M.

Il Tribunale, pronunziando sulla domanda proposta con atto di citazione ritualmente notificato da B. nei confronti di R. s.r.l, e di “omissis” Banca, così provvede:

l) dichiara la nullità del contratto stipulato […] tra R. s.r.l. e B.;
2) dichiara la nullità del contratto stipulato il […] tra “omissis” Banca e B.
3) condanna R. s.r.l. a restituire a B. l’importo di euro 400,00 oltre ad interessi legali dalla data del pagamento (…), al saldo effettivo;
4) condanna “omissis” Banca a restituire a B. l’importo di euro 11.137,79 maturato al 30 gennaio 2014, oltre alle rate di mutuo corrisposte dal mutuatario in favore della Banca mutuante successivamente a tale data, con gli interessi dalle date dei singoli pagamenti al saldo effettivo;
5) rigetta ogni residua domande ed eccezione;
6) condanna in solido le parti convenute al pagamento delle spese di lite sostenute dagli attori, […]”.