Il paziente, dal 2006, all’esito di un intervento di sostituzione di della valvola aortica, era portatore di protesi meccanica e, da allora, assumeva terapia anticoagulante, il cui dosaggio veniva impostato sulla scorta di periodiche misurazioni dell’INR dall’ambulatorio di sorveglianza TAO (=terapia anticoagulante orale) di riferimento, facente parte di un’Azienda sanitaria lombarda.
In occasione di uno dei periodici controlli, il paziente segnalava di doversi sottoporre all’estrazione di un dente, programmata per il 03.10.2018, e in vista di tale procedura i medici dell’Azienda sanitaria prescrivevano la sospensione temporanea della terapia anticoagulante, inadeguata nel caso specifico sia come scelta di base sia per come veniva gestita, anche nel prosieguo.
Gli veniva, infatti, erroneamente prescritto di sospendere la terapia anticoagulante orale (Coumadin) 4 giorni prima dell’intervento odontoiatrico e la sua sostituzione dopo 2 giorni con Clexane 4000UI, con indicazione di ripresa del Coumadin dopo 3 giorni dall’estrazione, e, in occasione del successivo appuntamento dell’08.10.2018, parimenti gli veniva indicato di assumere terapia incongrua.
Tale condotta negligente, imprudente e imperita, oltre che contraria ai dettami dell’arte medica da parte del personale sanitario determinava “un’ischemia cerebrale temporo-parietale sinistra”, di cui il paziente rimaneva vittima il 10.10.2018, riportando ingenti danni.
Un uomo di appena 59 anni, ancora attivo e impegnato a livello professionale e personale, in un batter di ciglia, si ritrovava, in conseguenza dell’evento ischemico di cui si tratta, a dover affrontare oltre a un pesante ricovero e un lunghissimo e faticosissimo percorso di riabilitazione su più fronti, e, ciò nonostante, stabilizzati i postumi, a dover convivere con una condizione di soggetto emiplegico con un deficit deambulatorio e dell’eloquio, che compromettevano la sua capacità lavorativa e numerose altre attività della vita quotidiana e di svago, rendendo necessaria una costante supervisione da parte dei propri familiari.
A fronte di quanto accaduto, il paziente e i suoi familiari si rivolgevano all’Avv. Luigi Lucente del Foro di Milano per chiedere la tutela dei propri diritti e perché fosse fatta Giustizia.
Dopo un’approfondita valutazione medico-legale e specialistica, l’Avv. Luigi Lucente avanzava, nei confronti della struttura nosocomiale e, parimenti, del medico che si era occupato del caso, formale missiva di richiesta di risarcimento dei danni sia in favore del paziente sia in favore della moglie e della figlia.
La fase stragiudiziale si concludeva con un nulla di fatto, motivo per cui, all’esito anche di un tentativo di mediazione (obbligatorio quale condizione di procedibilità previsto dalla L. 24/2017) che dava analogamente esito negativo, si rendeva necessario, nell’anno 2020, incardinare un procedimento civile davanti al Tribunale di Mantova.
Si costituivano in giudizio sia l’Azienda Sanitaria che il medico, il quale chiedeva di chiamare in giudizio quale proprio garante la compagnia assicurativa con la quale aveva stipulato polizza per la responsabilità professionale.
Nel merito, le controparti, convenute e terza chiamata, insistevano per il rigetto delle domande attoree, difendendo le scelte terapeutiche assunte, e addebitandone, in ogni caso, la responsabilità al dentista che aveva programmato ed eseguito la procedura odontoiatrica.
L’attività consulenziale espletata nel corso del giudizio, confermava e riconosceva pienamente la censurabilità dell’operato del personale sanitario dell’Azienda Sanitaria lombarda, che gli attori avevano fin dall’inizio allegato e denunciato.
In tale scritto, i Periti dell’Ufficio, dopo aver ricostruito i fatti, concludevano perentoriamente:
“…la strategia bridging therapy attuata in questo soggetto non è stata adeguata sia come scelta di base (vedasi quanto di seguito riportato) sia come gestione.
Il dosaggio di 4000 Unità di clexane sottocute 2 volte al giorno non hanno offerto una adeguata protezione nei confronti del tromboembolismo arterioso. L’uso di enoxaparina sodica non è stato adeguatamente studiato per la tromboprofilassi in pazienti con protesi valvolari cardiache meccaniche,
In ogni caso va ricordato che nel caso del paziente (omissis) non sussisteva la necessità di alcuna sospensione della terapia anticoagulante poiché le procedure odontoiatriche, inclusa l’avulsione dentaria singola o multipla, non necessitano di variazione, sospensione o bridging della terapia con antagonisti della vitamina K.
E’ fondamentale infatti ricordare che le Linee Guida della Società Europea di Cardiologia per il trattamento della valvulopatie evidenziano che, nel caso di chirurgia odontoiatrica, è raccomandata la non sospensione della terapia anticoagulanti orali (pagina 602 capitolo 11.3). […] Risulta evidente che la scelta corretta fosse la non sospensione dell’anticoagulante orale poiché tale opzione, applicata per una avulsione dentaria, avrebbe rappresentato la scelta maggiormente raccomandata dagli esperti e certamente associata al minor rischio combinato di trombosi e sanguinamento”.
Un giudizio perentorio ed eloquente che veniva ribadito, negli stessi termini anche all’esito delle osservazioni critiche dei CT di controparte.
In quelle note critiche, peraltro, le convenute cercavano di insinuare dubbi sul giudizio causale, sostenendo, in parole povere, che il valore INR potesse scendere sotto il range di riferimento anche indipendentemente dalla terapia e che l’evento trombotico poteva verificarsi anche con un valore INR nei range.
Lapidarie erano le risposte in merito da parte dei CTU che, sgombrando il campo da fuorvianti generalizzazioni, puntualizzavano ulteriormente come, proprio in virtù di un giudizio controfattuale, qualora gli operatori sanitari – diversamente da quanto accaduto – non avessero proceduto alla sospensione della terapia anticoagulante e ad una non adeguata strategia “Bridging therapy” sul paziente, con ragionevole probabilità, l’evento ischemico del 10.10.2018 non si sarebbe verificato.
All’esito dell’assunzione delle testimonianze attoree, finalizzate a dimostrare la portata dei danni patiti, ritenuta la causa matura per la decisione e letti gli atti conclusivi del procedimento, in data 04 febbraio 2024 il Tribunale di Mantova pubblicava la sentenza n. 154/2024.
In particolare, tale decisione, ripercorrendo l’iter logico-argomentativo della Consulenza Tecnica espletata, ne ha condiviso le conclusioni, in quanto motivate e scientificamente suffragate.
Di conseguenza ha affermato la responsabilità, contrattuale, dell’Azienda Sanitaria, ed extracontrattuale del medico, essendo quest’ultimo il professionista specialista cui solo competeva la decisione in ordine alla terapia anticoagulante da somministrare al paziente (o alla sua sospensione), indipendentemente da qualsiasi eventuale richiesta del dentista (se anche davvero vi fosse stata).
Per l’effetto, la sentenza ha condannato entrambe le parti convenute, in solido, al risarcimento dei pregiudizi patiti dal paziente, quale vittima diretta e primaria, ma anche dalla moglie e dalla figlia, quali danneggiati riflessi.
A fronte di un importante periodo di invalidità temporanea per i ricoveri e la lunga riabilitazione, e di una invalidità del 35% accertata come lesione all’integrità psico fisica in nesso di causa con gli errori dei sanitari del centro TAO, il Tribunale ha, infatti, ritenuto che il paziente avesse diritto di ottenere il ristoro del danno biologico c.d. puro (per i postumi permanenti oltre che per il periodo di inabilità temporanea riconosciuti), aumentato di un’ulteriore percentuale a titolo di personalizzazione, per compensare le importanti e specifiche ripercussioni negative, diverse da quelle normali ed indefettibili secondo l’ id quod plerumque accidit, oltre che per l’eccezionale disagio psicologico vissuto e la sofferenza patita; nonché dei danni di natura patrimoniale, per le spese mediche sostenute, per i costi di abbattimento delle barriere architettoniche necessari per adattare i locali di casa alla acclarata condizione di disabilità, nonché per parte delle perdite di guadagno subite, queste ultime liquidate secondo un criterio equitativo ex art. 1226 C.C. e 2056 C.C.
Il Tribunale, in accoglimento delle domande attoree, ha, inoltre, statuito che, a fronte della disabilità del loro caro, anche i familiari avessero diritto ad essere risarciti, fra l’altro, del danno non patrimoniale patito, sulla scorta di quanto previsto dalle tabelle del Tribunale di Roma.
Si legge in sentenza in proposito: “[…] Sulla base dell’id quoad plerumque accidit può quindi ritenersi che l’evento lesivo abbia sicuramente comportato “fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita” anche della moglie, potendo presumersi che siano principalmente a suo carico le incombenze di supporto al marito nello svolgimento delle attività di vita quotidiana (come lavarsi, vestirsi, ecc.) e che, come il marito, anche la moglie abbia subito le ripercussioni che tale invalidità comporta nella vita di relazione e nello svolgimento di attività di svago […].
Concludendo, sulla base degli elementi offerti, e di ogni ulteriore mezzo di prova utile all’accertamento qui richiesto, quali fatti notori, massime di esperienza e presunzioni, deve affermarsi la sussistenza in capo a (moglie) (omissis) di un danno da lesione del rapporto parentale, sia quanto all’aspetto della sofferenza morale, sia quanto all’aspetto di una modifica in pejus delle attività dinamico-relazionali precedentemente esplicate, e la sussistenza di un danno non patrimoniale subito dalla figlia (omissis), quale danno da lesione del rapporto parentale, da ravvisarsi nel solo aspetto della sofferenza morale”.