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Deve togliersi un dente: il sanitario sospende la terapia anticoagulante e il paziente rimane vittima di un grave evento ischemico – La sentenza del Tribunale di Mantova

By Casi

Il paziente, dal 2006, all’esito di un intervento di sostituzione di della valvola aortica, era portatore di protesi meccanica e, da allora, assumeva terapia anticoagulante, il cui dosaggio veniva impostato sulla scorta di periodiche misurazioni dell’INR dall’ambulatorio di sorveglianza TAO (=terapia anticoagulante orale) di riferimento, facente parte di un’Azienda sanitaria lombarda.

In occasione di uno dei periodici controlli, il paziente segnalava di doversi sottoporre all’estrazione di un dente, programmata per il 03.10.2018, e in vista di tale procedura i medici dell’Azienda sanitaria prescrivevano la sospensione temporanea della terapia anticoagulante, inadeguata nel caso specifico sia come scelta di base sia per come veniva gestita, anche nel prosieguo. 

Gli veniva, infatti, erroneamente prescritto di sospendere la terapia anticoagulante orale (Coumadin) 4 giorni prima dell’intervento odontoiatrico e la sua sostituzione dopo 2 giorni con Clexane 4000UI, con indicazione di ripresa del Coumadin dopo 3 giorni dall’estrazione, e, in occasione del successivo appuntamento dell’08.10.2018, parimenti gli veniva indicato di assumere terapia incongrua.

Tale condotta negligente, imprudente e imperita, oltre che contraria ai dettami dell’arte medica da parte del personale sanitario determinava “un’ischemia cerebrale temporo-parietale sinistra”, di cui il paziente rimaneva vittima il 10.10.2018, riportando ingenti danni.

Un uomo di appena 59 anni, ancora attivo e impegnato a livello professionale e personale, in un batter di ciglia, si ritrovava, in conseguenza dell’evento ischemico di cui si tratta, a dover affrontare oltre a un pesante ricovero e un lunghissimo e faticosissimo percorso di riabilitazione su più fronti, e, ciò nonostante, stabilizzati i postumi, a dover convivere con una condizione di soggetto emiplegico con un deficit deambulatorio e dell’eloquio, che compromettevano la sua capacità lavorativa e numerose altre attività della vita quotidiana e di svago, rendendo necessaria una costante supervisione da parte dei propri familiari. 

A fronte di quanto accaduto, il paziente e i suoi familiari si rivolgevano all’Avv. Luigi Lucente del Foro di Milano per chiedere la tutela dei propri diritti e perché fosse fatta Giustizia.

Dopo un’approfondita valutazione medico-legale e specialistica, l’Avv. Luigi Lucente avanzava, nei confronti della struttura nosocomiale e, parimenti, del medico che si era occupato del caso, formale missiva di richiesta di risarcimento dei danni sia in favore del paziente sia in favore della moglie e della figlia.

La fase stragiudiziale si concludeva con un nulla di fatto, motivo per cui, all’esito anche di un tentativo di mediazione (obbligatorio quale condizione di procedibilità previsto dalla L. 24/2017) che dava analogamente esito negativo, si rendeva necessario, nell’anno 2020, incardinare un procedimento civile davanti al Tribunale di Mantova.

Si costituivano in giudizio sia l’Azienda Sanitaria che il medico, il quale chiedeva di chiamare in giudizio quale proprio garante la compagnia assicurativa con la quale aveva stipulato polizza per la responsabilità professionale.

Nel merito, le controparti, convenute e terza chiamata, insistevano per il rigetto delle domande attoree, difendendo le scelte terapeutiche assunte, e addebitandone, in ogni caso, la responsabilità al dentista che aveva programmato ed eseguito la procedura odontoiatrica.

L’attività consulenziale espletata nel corso del giudizio, confermava e riconosceva pienamente la censurabilità dell’operato del personale sanitario dell’Azienda Sanitaria lombarda, che gli attori avevano fin dall’inizio allegato e denunciato.

In tale scritto, i Periti dell’Ufficio, dopo aver ricostruito i fatti, concludevano perentoriamente:

“…la strategia bridging therapy attuata in questo soggetto non è stata adeguata sia come scelta di base (vedasi quanto di seguito riportato) sia come gestione. 

Il dosaggio di 4000 Unità di clexane sottocute 2 volte al giorno non hanno offerto una adeguata protezione nei confronti del tromboembolismo arterioso. L’uso di enoxaparina sodica non è stato adeguatamente studiato per la tromboprofilassi in pazienti con protesi valvolari cardiache meccaniche,

In ogni caso va ricordato che nel caso del paziente (omissis) non sussisteva la necessità di alcuna sospensione della terapia anticoagulante poiché le procedure odontoiatriche, inclusa l’avulsione dentaria singola o multipla, non necessitano di variazione, sospensione o bridging della terapia con antagonisti della vitamina K. 

E’ fondamentale infatti ricordare che le Linee Guida della Società Europea di Cardiologia per il trattamento della valvulopatie evidenziano che, nel caso di chirurgia odontoiatrica, è raccomandata la non sospensione della terapia anticoagulanti orali (pagina 602 capitolo 11.3). […] Risulta evidente che la scelta corretta fosse la non sospensione dell’anticoagulante orale poiché tale opzione, applicata per una avulsione dentaria, avrebbe rappresentato la scelta maggiormente raccomandata dagli esperti e certamente associata al minor rischio combinato di trombosi e sanguinamento”. 

Un giudizio perentorio ed eloquente che veniva ribadito, negli stessi termini anche all’esito delle osservazioni critiche dei CT di controparte.

In quelle note critiche, peraltro, le convenute cercavano di insinuare dubbi sul giudizio causale, sostenendo, in parole povere, che il valore INR potesse scendere sotto il range di riferimento anche indipendentemente dalla terapia e che l’evento trombotico poteva verificarsi anche con un valore INR nei range. 

Lapidarie erano le risposte in merito da parte dei CTU che, sgombrando il campo da fuorvianti generalizzazioni, puntualizzavano ulteriormente come, proprio in virtù di un giudizio controfattuale, qualora gli operatori sanitari – diversamente da quanto accaduto – non avessero proceduto alla sospensione della terapia anticoagulante e ad una non adeguata strategia “Bridging therapy” sul paziente, con ragionevole probabilità, l’evento ischemico del 10.10.2018 non si sarebbe verificato.

All’esito dell’assunzione delle testimonianze attoree, finalizzate a dimostrare la portata dei danni patiti, ritenuta la causa matura per la decisione e letti gli atti conclusivi del procedimento, in data 04 febbraio 2024 il Tribunale di Mantova pubblicava la sentenza n. 154/2024.

In particolare, tale decisione, ripercorrendo l’iter logico-argomentativo della Consulenza Tecnica espletata, ne ha condiviso le conclusioni, in quanto motivate e scientificamente suffragate.

Di conseguenza ha affermato la responsabilità, contrattuale, dell’Azienda Sanitaria, ed extracontrattuale del medico, essendo quest’ultimo il professionista specialista cui solo competeva la decisione in ordine alla terapia anticoagulante da somministrare al paziente (o alla sua sospensione), indipendentemente da qualsiasi eventuale richiesta del dentista (se anche davvero vi fosse stata).

Per l’effetto, la sentenza ha condannato entrambe le parti convenute, in solido, al risarcimento dei pregiudizi patiti dal paziente, quale vittima diretta e primaria, ma anche dalla moglie e dalla figlia, quali danneggiati riflessi.

A fronte di un importante periodo di invalidità temporanea per i ricoveri e la lunga riabilitazione, e di una invalidità del 35% accertata come lesione all’integrità psico fisica in nesso di causa con gli errori dei sanitari del centro TAO, il Tribunale ha, infatti, ritenuto che il paziente avesse diritto di ottenere il ristoro del danno biologico c.d. puro (per i postumi permanenti oltre che per il periodo di inabilità temporanea riconosciuti), aumentato di un’ulteriore percentuale a titolo di personalizzazione, per compensare le importanti e specifiche ripercussioni negative, diverse da quelle normali ed indefettibili secondo l’ id quod plerumque accidit, oltre che per l’eccezionale disagio psicologico vissuto e la sofferenza patita; nonché dei danni di natura patrimoniale, per le spese mediche sostenute, per i costi di abbattimento delle barriere architettoniche necessari per adattare i locali di casa alla acclarata condizione di disabilità, nonché per parte delle perdite di guadagno subite, queste ultime liquidate secondo un criterio equitativo ex art. 1226 C.C. e 2056 C.C.

Il Tribunale, in accoglimento delle domande attoree, ha, inoltre, statuito che, a fronte della disabilità del loro caro, anche i familiari avessero diritto ad essere risarciti, fra l’altro, del danno non patrimoniale patito, sulla scorta di quanto previsto dalle tabelle del Tribunale di Roma.

Si legge in sentenza in proposito: “[…] Sulla base dell’id quoad plerumque accidit può quindi ritenersi che l’evento lesivo abbia sicuramente comportato “fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita” anche della moglie, potendo presumersi che siano principalmente a suo carico le incombenze di supporto al marito nello svolgimento delle attività di vita quotidiana (come lavarsi, vestirsi, ecc.) e che, come il marito, anche la moglie abbia subito le ripercussioni che tale invalidità comporta nella vita di relazione e nello svolgimento di attività di svago […].

Concludendo, sulla base degli elementi offerti, e di ogni ulteriore mezzo di prova utile all’accertamento qui richiesto, quali fatti notori, massime di esperienza e presunzioni, deve affermarsi la sussistenza in capo a (moglie) (omissis) di un danno da lesione del rapporto parentale, sia quanto all’aspetto della sofferenza morale, sia quanto all’aspetto di una modifica in pejus delle attività dinamico-relazionali precedentemente esplicate, e la sussistenza di un danno non patrimoniale subito dalla figlia (omissis), quale danno da lesione del rapporto parentale, da ravvisarsi nel solo aspetto della sofferenza morale”.

Colpita da ictus mentre faceva jogging, muore in ospedale: la sentenza del Tribunale civile di Trani rende Giustizia alla famiglia

By Casi

La mattina del 22.05.14 una madre di famiglia veniva colta da malore durante la buona abitudine sportiva del fit walking (o camminata veloce) che praticava ogni settimana con un’amica. La signora, ritrovata in coma, veniva trasportata al Pronto Soccorso di zona, e da lì veniva trasferita in “codice rosso molto critico” e per “sospetta emorragia cerebrale” al reparto di rianimazione di un importante polo ospedaliero afferente a un Ente ospedaliero regionale pugliese.

Ivi la paziente, con diagnosi di “ictus ischemico cerebrale”, veniva sottoposta a diversi esami strumentali. Tra questi, si prevedeva (invero già con qualche ora di ritardo) l’esecuzione di una risonanza magnetica dell’encefalo affiancata dalla singolare dicitura “appena possibile”, che nei fatti veniva eseguita, addirittura, dopo due intere giornate (il 24.05.14) e solo all’esito di una nuova prescrizione del 24.05.14, in sostituzione delle precedente rimasta vana, che qualificava tale esame come “urgente”.

Inoltre, nonostante presso il reparto di neurologia – ove nel mentre la paziente era stata trasferita – fosse individuato un peggioramento clinico, non veniva previsto alcun monitoraggio e controllo per ben diciotto ore, e non veniva prescritta idonea cura farmacologica, così trascurando la possibilità, nota nella letteratura medica, che nelle ore successive all’evento ictale acuto possa svilupparsi in capo al paziente un edema cerebrale.

La mattina del 25.05.14, infatti, la paziente veniva rinvenuta in uno stato ormai critico e non più recuperabile, sicché, ritenuta non più eligibile alla terapia trombolitica e a un intervento chirurgico di trombectomia, dopo alcuni giorni di attesa in uno stadio pre-terminale e pre-agonico in data 31.05.14 la stessa decedeva.

A fronte di quanto accapitato, i familiari della paziente si rivolgevano all’Avv. Luigi Lucente del Foro di Milano per chiedere la tutela dei propri diritti e perché fosse fatta Giustizia alla compianta moglie e madre.

Ottenuta dalla famiglia valutazione specialistica e medico-legale a firma di Professionisti sulla piazza di Milano, l’Avv. Luigi Lucente avanzava formale missiva di richiesta del risarcimento del danno nei confronti della struttura nosocomiale e, parimenti, del medico di reparto che aveva avuta in cura la paziente.

In assenza di concreti riscontri, veniva esperito un tentativo di mediazione avanti all’Organismo di Mediazione Forense del Foro di Trani – condizione di procedibilità ex art. 5 D.Lgs 28/2010 – che tuttavia mostrava del pari esito negativo stante la mancata adesione di entrambi i soggetti invitati.

Di conseguenza veniva introitato un procedimento civile innanzi al Tribunale di Trani, a cui veniva assegnato R.G. n. 5099/2016.

Mediante difese autonome e distinte si costituivano in giudizio sia il nosocomio e sia il sanitario convenuti.

Colà, al cospetto di una combattuta fase costitutiva e istruttoria, l’Organo Giudicante disponeva, come richiesto dalla Difesa dei parenti della vittima, una Consulenza medico-legale d’Ufficio (CTU) con individuazione di periti al di fuori del distretto del Tribunale.

L’esito di tale attività tecnico-consulenziale conduceva, tuttavia, a un approdo ambivalente: da un lato il collegio peritale concludeva che “le attività terapeutiche poste in atto risultano sostanzialmente adeguate e tempestive”, ma, dall’altro, nel corpo del loro elaborato i CTU evidenziavano come l’omessa esecuzione della risonanza magnetica avesse “privato i sanitari di informazioni utili”, e ammettevano che vi fosse un “vuoto di annotazioni sul diario clinico sia medico che infermieristico della durata di circa 18 ore”. Difatti, incomprensibilmente costoro parevano giustificare il tardivo approfondimento strumentale alla stregua di “carenze strutturali” del nosocomio (dando seguito all’indimostrata tesi del sanitario secondo cui il macchinario non avrebbe consentito di eseguire la risonanza magnetica su pazienti intubati come la signora) e, sulla scorta di ciò, di una non meglio definita “impossibilità” dei sanitari di svolgere la propria prestazione, pur stigmatizzando al contempo una “mancanza di organizzazione/attrezzatura idonea” del nosocomio e l’assenza di protocolli condivisi per il trasferimento dei pazienti critici presso altre strutture adeguate. E quanto, invece, all’omesso monitoraggio e controllo durato per circa diciotto ore, gli stessi sostenevano che, pur non risultando traccia alcuna in cartella clinica di tale attività, a loro avviso la paziente doveva ritenersi essere stata “verosimilmente” monitorata e controllata.

A fronte di ciò, nell’interesse dei propri Assistiti l’Avv. Luigi Lucente depositava in Tribunale una istanza finalizzata a ottenere chiarimenti specifici dai CTU e la modifica delle relative conclusioni. Il Giudice accoglieva tale richiesta e fissava all’uopo udienza al 04.07.2022, ove i CTU, tuttavia, nonostante le denunciate criticità e incoerenze non si dimostravano disponibili a modificare il loro intendimento.

Senza rassegnazione, l’Avv. Lucente avanzava dunque nuova istanza al Giudicante, chiedendo il suo diretto intervento anche nella veste di peritus peritorum, e rimarcando l’esistenza, nei meandri dell’approfondimento peritale d’Ufficio, di elementi istruttori discordi rispetto alle relative conclusioni e che, se opportunamente reinterpretati, avrebbero invece consentito di addivenire a una pronuncia di condanna dell’ospedale e del medico. Poneva in risalto, infatti, come non potesse ex se presumersi un monitoraggio della paziente, in assenza di prove in tal senso, e come, ancor meno, potessero scaricarsi sulla paziente le conseguenze del grave ritardo diagnostico e del deficit strutturale e organizzativo comunque riconosciuti dai CTU.

Ritenuta la causa matura per la decisione e letti gli atti conclusivi del procedimento, in data 20.11.23 il Tribunale di Trani pubblicava la sentenza n. 1687/2023 con cui affermava di condividere integralmente le argomentazioni della Difesa dei familiari della vittima, reinterpretava in modo conforme a diritto le risultanze istruttorie affioranti dalle operazioni peritali, e ritenendo responsabili del decesso della paziente la struttura ospedaliera e il sanitario convenuti, li condannava al risarcimento del relativo danno.

Segnatamente, nel provvedimento decisorio si rimproverava ai CTU di aver “singolarmente ipotizzato, in maniera del tutto aprioristica ed indimostrata” l’utilizzo di sistemi di monitoraggio della paziente. Inoltre, con riguardo al tardivo espletamento di una risonanza magnetica statuiva che, in effetti, non poteva rinnegarsi “la sussistenza …di una grave carenza di diligenza e di imperizia… sia da parte della struttura per evidente carenza di adeguata strumentazione, sia da parte del medico che rilevò l’urgenza del detto approfondimento senza curarsi di acclarare che il detto prescritto esame venisse effettivamente effettuato con la rilevata urgenza o che, comunque, venissero adottate misure alternative con carattere di urgenza”. A parer del Giudicante, difatti, in ogni caso non poteva giustificarsi la gestione del caso clinico così come operata dai convenuti. E ciò anche in considerazione del fatto che, a ben vedere e anche a tutto voler concedere, la paziente veniva “persino estubata …già alle ore 13.00 del 23.5.2014” senza che però alcuna risonanza venisse disposta sino al giorno successivo.

Questi elementi hanno impedito – continua il Magistrato, sulla scorta della monografia peritale – “la percorribilità di un eventuale percorso trombolitico e di endoarteriectomia”, precludendo “molto verosimilmente di pervenire ad una diagnosi più tempestiva del severo problema ischemico in atto”. Veniva dunque perpetrata una condotta omissiva che poteva ammettersi “in assenza di altri fattori alternativi… causa dell’evento lesivo” dacché “la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento stesso”.

Conformemente a un solido orientamento giurisprudenziale, la provocazione dell’exitus della paziente veniva ritenuta idonea ad arrecare iure proprio in capo ai familiari un danno non patrimoniale da commisurarsi sulla scorta dell’effettivo legame affettivo, e che vede, quale indice presuntivo, la sussistenza di vincoli di parentela o di coniugio, nonché di una stabile convivenza. Sicché, avendo la Difesa dei familiari fornito ampia deduzione per tabulas (con documentazione anagrafica, fotografica, e non solo) di tale legame, il Tribunale riteneva provato il relativo pregiudizio e, d’effetto, risarciva al marito e ai tre figli quanto di spettanza, oltre rivalutazione monetaria, interessi e il rimborso delle spese peritali, processuali e legali sostenute dagli stessi per ottenere Giustizia. Infine, al marito veniva riconosciuto anche l’integrale rimborso delle spese funerarie sostenute per l’esequie della consorte.

A chiosa di oltre sette anni di procedimento, dunque, il Tribunale di Trani perveniva all’integrale riconoscimento delle ragioni della famiglia della paziente scomparsa, facendo, finalmente, Giustizia.

Il Tribunale di Monza condanna lo studio dentistico e il dentista a pagare oltre € 100.000,00, comminando anche una sanzione punitiva per aver questi resistito in modo temerario alle legittime pretese del paziente

By Casi

Nell’ottobre 2009 il paziente, all’età di 36 anni, si rivolgeva a uno studio dentistico in ragione di una diffusa sensibilità dei denti posteriori agli stimoli termici e dunque di una estesa sensazione algica. Eseguita una ortopantomografia (panoramica dentale), ivi veniva preventivata la devitalizzazione pluricanalare di cinque elementi, la duplice infissione implantare all’emiarcata inferiore destra e la protesizzazione in ceramica di quattro elementi superiori a destra, cinque a sinistra, e quattro corone nell’emiarcate inferiori destra e sinistra. Nel corso del trattamento, tuttavia, la vicenda sanitaria del paziente evolveva in senso peggiorativo sino a raggiungere i connotati di un vero e proprio calvario: di volta in volta veniva prevista l’esecuzione di altri e distinti interventi; il rapporto con lo Studio si protraeva per oltre nove lunghi anni; si contavano addirittura oltre 150 incontri; il paziente medio tempore versava allo studio l’importo pari a € 16.500,00; eppure non poteva constatarsi alcun complessivo miglioramento clinico, bensì un costante peggioramento delle proprie condizioni di salute.

Nel 2018 il paziente si decideva così a interrompere le cure e sottoponeva la sua vicenda a un noto Medico Chirurgo Odontostomatologo e Consulente iscritto all’Albo del Tribunale di Milano, il quale, all’esito di un esame approfondito della vicenda e della documentazione disponibile, riscontrava l’esecuzione di molteplici trattamenti ingiustificati e inefficaci, fra cui l’avulsione immotivata dei denti dell’arcata superiore, terapie canalari malcondotte, riabilitazioni fallite, e devitalizzazioni e ricostruzioni non necessarie.

Il paziente, dunque, si rivolgeva e conferiva mandato allo Studio Legale Lucente per far valere i propri diritti. La sua posizione veniva istruita dall’Avv. Luigi Lucente mediante la raccolta e l’organizzazione dell’intero compendio documentale, e anche per il tramite di testimoni. Veniva così impostata la strategia difensiva, inquadrata la fattispecie giuridica sottesa al caso e valorizzati i postumi di carattere patrimoniale e non patrimoniale emergenti.

Lo Studio Legale intraprendeva anche un tentativo stragiudiziale finalizzato al componimento bonario della vertenza, tuttavia non coltivato dai soggetti contattati.

Veniva, altresì, incardinato il relativo procedimento di mediazione – condizione di procedibilità in materia sanitaria ex D.Lgs. 28/2010 – senza tuttavia trovare disponibilità avversaria in chiave conciliativa.

Veniva quindi instaurato il giudizio civile innanzi al competente Tribunale di Monza. I soggetti citati erano lo studio dentistico (la società in accomandita semplice e il socio accomandatario) e il medico che in principalità aveva seguito il paziente. Avverso costoro veniva formulata domanda di risarcimento, in solido, per il danno non patrimoniale da lesione dell’integrità psico-fisica patito dal paziente, a connotazione sia permanente e sia temporanea, oltreché il danno patrimoniale futuro per le spese mediche che si sarebbero rese necessarie. Nei confronti dello studio dentistico, inoltre, veniva spiegata domanda di restituzione dei compensi indebitamente versati, stante l’inadempiente prestazione sanitaria resa. Lo Studio legale avanzava, altresì, domanda di rimborso di spese legali, peritali e processuali, nonché richiesta di voler sanzionare l’indisponibilità avversaria a una risoluzione amichevole della vicenda con la condanna a una somma aggiuntiva per resistenza temeraria ex art. 96 u.c. c.p.c.

Lo Studio legale Lucente seguiva il paziente in tutte le successive fasi della causa civile. Nel corso del procedimento veniva disposta Consulenza Tecnica d’Ufficio, con nomina di un Collegio peritale composto da uno Specialista in medicina legale e delle assicurazioni e uno Specialista in odontostomatologia. Alla conclusione dell’indagine medica i Periti dell’Ufficio riconoscevano ingenti responsabilità in capo a tutti i soggetti convenuti. Costoro individuavano un danno da lesione alla integrità psico-fisica a carattere permanente nella percentuale del 9%, contestato dall’Avv. Luigi Lucente giacché ritenuto incongruo riguardo all’effettivo pregiudizio patito rispetto alla relativa voce di cui alla perizia di parte attorea e pari alla maggior misura del 15%: come si preciserà infra il Tribunale avrebbe poi assecondato la prospettazione della Difesa attorea su questo importante punto riconoscendo un danno da invalidità permanente in maggior misura rispetto a quella indicata dai CTU.

In data 31.05.2023 veniva pubblicata la SENTENZA N. 1295/2023 del Tribunale di Monza di integrale accoglimento delle pretese risarcitorie del paziente e condanna di tutti i convenuti al risarcimento del danno provocato.

Nel merito, si legge nella parte motiva del provvedimento che: “In quanto agli errori professionali, il collegio peritale ha rilevato terapie canalari malcondotte con insufficiente riempimento canalare, e conseguente formazione di lesioni endodontiche periapicali, immotivata avulsione di tutti i denti dell’arcata superiore e all’arcata inferiore dei primi molari destro e sinistro, del terzo molare destro, fallimento della riabilitazione eseguita” con “deficit sia in fase di pianificazione terapeutica che di realizzazione delle cure”. Il Tribunale di Monza ha riconosciuto “che vi siano stati inadempimenti colposi imputabili ai convenuti” e ha statuito: “Al paziente sono stati tolti complessivamente sedici denti e, quattordici di questi, del tutto immotivatamente rendendo il giovane paziente totalmente edentulo all’arcata superiore. Sono stati rimossi denti sani che avrebbero potuto fare valido pilastro per impianti”.

Quanto all’approccio terapeutico e alle modalità di gestione e indirizzo del paziente, il Giudicante ha reso una divagazione fuor di metafora dal piglio assai severo: “E’ opportuno ricordare che il paziente non ha solitamente le conoscenze che gli permettano di sapere se un dente sia sano oppure richieda una terapia endodontica o una estrazione e deve necessariamente affidarsi alle competenze ed all’onestà del dentista… Purtroppo nel campo odontoiatrico vi è un interesse economico, in capo ai medici – non così pervasivo in altri settori -, in quanto più estrazioni e terapie canalari sono eseguite, più aumentano i guadagni sia per il costo delle terapie in sé sia per il costo delle conseguenti soluzioni protesiche”.

Quanto al ristoro del pregiudizio patito dal paziente, il Tribunale riconosceva anzitutto un copioso “periodo di inabilità temporanea” pari a “giorni 60 al 50%, 90 al 25% e 120 al 10%, oltre a quota di inabilità temporanea legata alle cure future … pari a 15 gg al 50%, 20 al 25% e 20 al 10% relativo ai disagi e alle sofferenze”, con applicazione del massimo valore tabellare.

Circa il pregiudizio all’integrità psico-fisica a carattere permanente subito dal paziente, il Tribunale premetteva che “Il collegio ha sommato i punti di invalidità attribuiti singolarmente a ciascun dente ed ha ridotto il punteggio a motivo della possibilità di una riabilitazione protesica” concludendo per un danno permanente del 9%, per poi statuire: “Il Tribunale tuttavia ritiene che la indicazione del punto di 9% non consideri tutti gli aspetti del danno e che si debba riconoscere una lesione permanente nella percentuale del 14%”. Infatti, il Collegio peritale “ha errato nell’interpretazione della norma, applicando una riduzione nella misura di 1/3” in quanto “Appare interpretazione preferibile… provvedere ad un pieno risarcimento di lesioni protesizzabili particolarmente nei casi, come quello oggi in esame, di un soggetto di giovane età e di dentatura sana. Ritenere che una riduzione che debba necessariamente essere applicata ogniqualvolta sia possibile applicare una protesi comporterebbe ridurre i casi di risarcimento “pieno” a marginali ipotesi di gravissima compromissione ossea, essendo altrimenti sempre possibile l’applicazione di una protesi”.

Inoltre, con riferimento all’azione di ripetizione dei compensi versati allo studio dentistico, il Tribunale ha ritenuto l’iniziativa del paziente meritevole di accoglimento, e “provato l’effettivo pagamento di corrispettivi per € 16.500,00”. Di questi, però, “€ 5.190,00 rappresentano il controvalore di opere utilmente prestate” – si legge in sentenza – sicché al paziente veniva riconosciuto in restituzione il residuo importo pari a € 11.310,00.

In ordine, poi, al danno patrimoniale per spese mediche future, l’Autorità Giudicante riteneva fondata anche questa pretesa risarcitoria del paziente, e, all’uopo, riconosceva la somma di € 16.000,00. 

Infine, con riferimento alla richiesta di voler sanzionare ex art. 96 u.c. c.p.c. la condotta temeraria e defatigatoria delle controparti, il Giudicante valutava complessivamente il comportamento giudiziale e stragiudiziale tenuto dai convenuti (studio dentistico e sanitario), e, condividendo anche tale iniziativa del paziente, condannava gli stessi al pagamento di un ulteriore importo commisurato “in via equitativa” e pari alla “somma simbolica di € 2.000,00 per parte”.

Per l’effetto, il Tribunale di Monza, definitivamente pronunciando, con sentenza provvisoriamente esecutiva:

  • condannava tutti i convenuti, in solido fra loro e nei rapporti interni al 50% fra lo studio e il professionista, al pagamento in favore del paziente della somma di € 51.465,00 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale per lesione dell’integrità psico-fisica, oltre interessi legali dall’01.01.13;
  • condannava la società e il socio accomandatario alla restituzione al paziente di compensi percepiti per € 11.310,00, oltre interessi legali e rivalutazione dall’01.01.13; 
  • condannava tutti i convenuti, in solido fra loro e nei rapporti interni al 50% fra lo studio e il professionista, al pagamento in favore del paziente della somma di € 16.000,00 per le spese mediche future che si renderanno necessarie; 
  • poneva a carico di tutti i convenuti, in solido fra loro e nei rapporti interni al 50% fra lo studio e il professionista, il costo dei periti dell’Ufficio e tutte le spese peritali di parte, processuali e legali del procedimento civile e della procedura di mediazione forense;
  • infine, condannava tutti i convenuti al pagamento di € 2.000,00 ciascuno “a titolo di sanzione ex art. 96 terzo comma c.p.c..

Dal Tribunale di Monza, in definitiva, è pervenuta una decisione esemplare e di dura condanna dell’operato del medico e dello studio dentistico coinvolti, atta a rendere finalmente giustizia a un paziente vittima di un così lungo e doloroso caso di malasanità.

CHIRURGIA PLASTICA DEL NASO: l’esito infausto dell’intervento di settoplastica e rinoplastica giustifica il risarcimento del paziente ed estingue il diritto al compenso del chirurgo plastico.

By Casi

Già in passato s’era toccato l’argomento dell’inefficace/dannosa prestazione sanitaria atta a legittimare la richiesta del paziente di restituzione del compenso versato. In particolare, il tema era stato affrontato sulla scorta di un precedente caso dello Studio Legale in materia odontoiatrica (qui il link: se un DENTISTA sbaglia a eseguire l’intervento odontoiatrico …). Tuttavia, l’episodio qui in commento si distingue e risulta di particolare interesse sia per la peculiarità della branca medica coinvolta, ossia quella della chirurgia estetica, e sia per i plurimi passaggi processuali si sono susseguiti (ben tre diversi procedimenti giudiziali).

La vicenda medica della paziente originava nell’autunno del 2016, quando questa si rivolgeva allo studio medico di un chirurgo plastico di zona per la risoluzione di problemi disfunzionali ed estetici del naso.

Eseguiti gli esami pre-operatori richiesti dal sanitario, la paziente veniva ricoverata in struttura e lì veniva sottoposta, per mano dello stesso, a intervento chirurgico di “settoplastica secondaria e rinoplastica open”, come recita la cartella clinica.

Il decorso post operatorio per la paziente si rivelò tuttavia una vera odissea. Al primo controllo successivo presso l’ambulatorio privato del chirurgo alla paziente veniva estratto solo uno dei due tamponi nasali lasciati in sede operatoria, ricevendo lei l’indicazione di rimuovere autonomamente l’altro, a casa, a distanza di qualche giorno. La paziente, pertanto, così provvedeva a fare, ma all’atto della rimozione si verificava una marcata epistassi che rendeva necessario il trasporto in ambulanza presso il pronto soccorso di zona. Ivi la paziente collassava e si rendeva addirittura necessario l’intervento del rianimatore, per poi procedersi in urgenza a intervento di causticazione volto a far cessare l’emorragia. Fortunamente la paziente si salvava, ma, in ragione dell’importante perdita ematica e del rischio corso, rimaneva ricoverata presso la ridetta struttura per sette giorni.

In capo alla paziente residuavano importanti esiti cicatriziali, sintomatologia algica e difficoltà respiratoria nasale: deficit estetici e funzionali che imponevano un intervento di revisione per “chirurgia di correzione della stenosi cicatriziale”.

A questo punto la signora, scoraggiata, si rivolgeva allo Studio Legale Lucente, ove veniva seguita dagli Avv. Luigi Lucente e Simona Tesolin.

Su indicazione dei legali, la paziente contattava le figure di un medico-legale e di un medico specialista in chirurgia plastica e ricostruttiva affinché, nella veste di Consulenti Tecnici di Parte, costoro valutassero la sussistenza di eventuali profili di responsabilità medica e, se riscontrati, quantificassero il danno alla salute e patrimoniale scaturito sulla sua persona.

Dall’approfondimento tecnico dei Periti di parte affiorava come la paziente avesse riportato risultati del tutto insoddisfacenti, con conseguente danno, e a monte veniva censurato il comportamento del chirurgo plastico “per non aver eseguito alcun tipo di studio preoperatorio della piramide nasale in una chirurgia secondaria su esiti con finalità sia funzionali che estetiche”, e, fra l’altro, “per aver posto indicazione ad una autorimozione dei tamponi nasali in ambiente domestico da parte della paziente”.

A quel punto la paziente, conferito formale incarico agli Avv.ti Lucente e Tesolin, loro tramite ricorreva ex art. 696 bis c.p.c. al Tribunale di Pavia (R.G. n. 7221/2017) per veder eseguita una Consulenza Tecnica d’Ufficio – ossia una relazione svolta da Periti del Tribunale – che sancisse la responsabilità del chirurgo plastico e quantificasse il pregiudizio che le era stato provocato. Si tratta di un procedimento giudiziale che prende il nome di Consulenza Tecnica Preventiva – concludendosi non con un provvedimento decisorio del Tribunale, ma con la sola perizia dei Consulenti Tecnici incaricati – ed è imposto quale condizione di procedibilità ex art. 8 L. 24/2017.

All’esito di tale procedura il Collegio dei periti del Tribunale composto da medico legale e specialista in chirurgia plastica dava sostanzialmente ragione alle lamentele della paziente, stabilendo in particolare che: “Gli esiti attualmente apprezzabili a margine dell’intervento del 01.12.16 si identificano in una prevalente alterazione morfo-strutturale a livello del dorso del naso non adeguatamente corretta e trattata chirurgicamente in relazione a un non ottimale innesto cartilagineo”. Anche la prescrizione di rimuovere da sola a casa il tampone nasale veniva fortemente censurata, in quanto “può essere necessario un nuovo tamponamento nasale anteriore, raramente anche posteriore” e può essere necessaria una cauterizzazione sotto anestesia”. Alla paziente, inoltre, veniva riconosciuto un danno iatrogeno alla salute dettato dal nocumento funzionale ed estetico subito e dai disagi e le cure a cui nei giorni successivi aveva dovuto sottostare.

Con ricorso ex art. 702 c.p.c. veniva così incardinata dalla paziente una procedura con rito sommario, sempre d’innanzi al Tribunale di Pavia, mirata questa volta a ottenere un provvedimento di condanna al risarcimento del danno: procedimento, questo, che veniva convertito in rito ordinario e in cui, su richiesta della Difesa della paziente, veniva acquisito il fascicolo della precedente procedura di Consulenza Tecnica Preventiva ex art. 696 bis c.p.c..

Nel frattempo, però, il chirurgo plastico citato in giudizio adiva il Giudice di Pace di Pavia, con ricorso per decreto ingiuntivo, richiedendo la condanna della paziente al pagamento del suo compenso per la prestazione sanitaria resa, e ottenendo l’emissione del relativo decreto ingiuntivo n. 992/2017 per € 4.500,00 oltre interessi e spese legali. Oggetto di questo ulteriore e terzo giudizio era, dunque, il diritto del chirurgo plastico di ottenere il pagamento delle proprie competenze per l’intervento chirurgico eseguito e per le attività connesse.

Incaricati anche per questo procedimento i legali Avv.ti Luigi Lucente e Simona Tesolin, la paziente si opponeva a tale ingiunzione di pagamento del chirurgo, notificando opposizione a decreto ingiuntivo.

In pendenza di questo ulteriore giudizio terminava però il procedimento davanti al Tribunale di Pavia mirato alla condanna al risarcimento del medico. Con sentenza n. 297/2020 del 20.02.2020 il Tribunale di Pavia dava ragione alle pretese della paziente e condannava il sanitario al pagamento della corrispondente somma a titolo risarcimento del danno.

Rimaneva tuttavia da decidere il giudizio d’innanzi al Giudice di Pace di Pavia per la richiesta di compensi avanzata dal dottore, ove nel frattempo la Difesa della paziente aveva prodotto, fra l’altro, la descritta sentenza del Tribunale di Pavia che inchiodava il chirurgo alle sue responsabilità.

In quella sede i legali dello Studio Lucente facevano valere il principio secondo cui, d’innanzi alla contestazione della paziente che denunciava un inadempimento del sanitario non di scarsa importanza, costui aveva l’onere di dimostrare di aver eseguito la prestazione sanitaria in modo diligente, prudente e perito (oppure che il verificarsi delle conseguenze pregiudizievoli in capo alla paziente fosse dipeso da eventi imprevedibili o inevitabili) per giustificare la bontà del suo operato, e così, di conseguenza, di vantare un diritto al relativo compenso. Ed essendo che, al contrario, al termine dell’istruttoria non solo costui non aveva dimostrato nulla di tutto ciò, ma, anzi, dagli atti emergeva la sussistenza di sue gravi responsabilità – così come individuate nella Consulenza Tecnica d’Ufficio e nella seguente sentenza del Tribunale di Pavia – il suo diritto alla controprestazione, e, quindi, al pagamento dell’onorario, si dimostrava insussistente, in forza del principio per cui in caso di prestazione inadempiente e fin dannosa viene meno il diritto del prestatore di ricevere la propria controprestazione.

Con la sentenza n. 343/21 del 26.07.21 il Giudice di Pace di Pavia accoglieva la tesi della paziente e così statuiva: “in atti è stata prodotta la sentenza … ove si legge che il collegio peritale nominato d’ufficio dal giudice «ha ravvisato condotta colposa del … (sanitario, n.d.r.) nonché il nesso di causalità tra tale condotta e il pregiudizio fisico subito … (dalla paziente, n.d.r.)» e, sulla base di tale perizia, il Tribunale ha condannato il sanitario al risarcimento dei danni alla persona patiti dalla paziente, come accertati con la Consulenza medico-legale”. “Pertanto si deve ritenere dimostrato l’inesatto adempimento della prestazione professionale posta in essere dal convenuto”. Difatti – prosegue il Giudice pavese – il chirurgo plastico “non ha assolto all’onere probatorio incombente di dimostrare la fondatezza del credito azionato in sede monitoria e, conseguentemente, si deve procedere alla revoca del decreto ingiuntivo”.

Per questi motivi il Giudice di Pace di Pavia:accerta e dichiara che nulla è dovuto” dalla paziente al medico; “per l’effetto, revoca il decreto ingiuntivo” richiesto dal sanitario; e “condanna … (il chirurgo, n.d.r.) alla rifusione delle spese di lite”.

In questo modo, dunque, la paziente otteneva, da un lato, il ristoro per i danni subiti, e, dall’altro, l’accertamento che nulla era da lei dovuto al chirurgo a titolo di compensi.

Quest’ultima decisione si uniforma a un condivisibile filone giurisprudenziale – fra i cui più recenti arresti si annoverano: Trib. Napoli, sez. VIII civ., 13.09.2021, n. 7328; Trib. Rieti, sez. civ, sentenza 20.11.19 Dott.ssa Sbarra; Trib. Milano, sentenza n. 13382/2016; Trib. Pisa, sentenza n. 371/2016; C.d.Appello Milano, sentenza n. 643/2015 – che valorizza la natura contrattuale del rapporto medico e stabilisce che in tale contesto la prestazione medico-sanitaria, se infausta e priva di vantaggio per il paziente, delegittima la controprestazione del pagamento dei compensi, i quali, quindi, potranno non essere corrisposti e, se già pagati, dovranno essere restituiti.

Lesione al midollo spinale durante il parto cesareo: la Corte di Appello conferma la condanna dell’Ospedale e del medico.

By Casi

Nel 2019 avevamo raccontato la vicenda di una paziente, seguita dallo Studio Legale Lucente, divenuta invalida in ragione di una lesione al midollo spinale esitata in occasione di un parto cesareo e più precisamente durante l’iniezione con cui veniva inoculato l’anestetico.

Qui il link diretto all’articolo richiamato, per conoscere la storia e il procedimento di primo grado tenutosi davanti al Tribunale di Milano e conclusosi con sentenza di condanna del nosocomio e dell’anestesista coinvolti (SENTENZA TRIB. MILANO, SEZ. I, N. 5288/19).

Riassumendo, il Tribunale di Milano, a fronte di una Consulenza tecnica dell’Ufficio che non certificava nelle conclusioni una responsabilità sanitaria, si discostava dal giudizio del Collegio peritale incaricato e, stimolato dalla Difesa dell’Avv. Luigi Lucente, reinterpretava gli esiti della perizia e così addiveniva a una pronuncia di condanna della struttura ospedaliera e del sanitario per aver praticato, durante il parto cesareo, l’iniezione spinale in uno spazio inter-vertebrale non raccomandato, provocando alla paziente una lesione midollare irreversibile.

A tale sentenza il 27.09.2019 veniva proposto appello da parte della Società Assicuratrice del medico anestesista condannato in primo grado quale materiale esecutore dell’infausta procedura anestesiologica.

L’Istituto assicurativo contestava, per un verso, l’inoperatività della polizza del sanitario e altre questioni attinenti la copertura assicurativa, mentre, per l’altro, denunciava errori del Tribunale meneghino nella parte in cui si era discostato dalla Consulenza medica, e deduceva che le complicanze verificatesi fossero da ascriversi a fattori esterni e non già all’operato del medico. La stessa contestava, altresì, la quantificazione del danno operata dal Giudicante di prime cure.

Si costituivano nel giudizio di appello tutte le parti appellate, paziente compresa. Quest’ultima nuovamente rappresentata e difesa dall’Avv. Luigi Lucente.

Tutte le parti dispiegavano le proprie difese. L’Ente ospedaliero e il sanitario coinvolti proponevano appello incidentale, e cioè a loro volta impugnavano la sentenza chiedendone la revisione in virtù dell’asserita esatta prestazione sanitaria.

Il secondo grado di giudizio si connotava per una certa celerità. Celebrata la prima udienza in data 17.12.2019, la Corte d’Appello rinviava al 23.06.2020 per la precisazione delle conclusioni. In seno a detta udienza la causa veniva trattenuta in decisione e, concessi i termini di legge per 1 gli atti difensivi conclusivi. In data 21.10.2020, infine, la causa veniva decisa in camera di consiglio e in data 18.11.2020 veniva pubblicata la sentenza (SENTENZA C.D.A. MILANO, SEZ. II CIVILE, N. 2987/20).

Nel processo di appello la Difesa della paziente, affidata all’Avv. Luigi Lucente, denunciava preliminarmente l’inammissibilità dell’appello incidentale proposto dal sanitario in quanto tardivo. E sul punto la Corte di Appello milanese riteneva fondata tale contestazione, dacché dichiarava “l’inammissibilità dell’appello incidentale” proposto dal sanitario.

Nel merito, l’Avv. Lucente replicava, eloquente, ricalcando i passi e gli spunti comunque offerti dalla Consulenza medico-legale del procedimento di primo grado, e dunque premendo sulla riconosciuta responsabilità professionale dell’anestesista, nonché del nosocomio, a cui era addivenuto il Tribunale. Veniva sottolineata, inoltre, la pacifica individuazione di un nesso causa-conseguenza fra l’operato del sanitario, responsabile, e il danno alla salute esitato sulla paziente. Venivano poi quindi riportati gli stralci della letteratura scientifica richiamata dalla Consulenza medica dell’Ufficio in modo improprio, e quindi evidenziata l’inconferenza rispetto al caso trattato. Veniva contestata l’esistenza di cause / concause nella produzione del danno afferenti alla paziente (quali l’obesità o particolari caratteristiche anatomiche del cono midollare, comunque mai dimostrate in giudizio). E di conseguenza veniva ricostruito e avvalorato l’intero iter logico-giuridico caratterizzante e fondante la pronuncia di primo grado del Tribunale meneghino, che bene aveva fatto a non dipendere unicamente dalle conclusioni del proprio collegio peritale, senza alcun vaglio critico.

Sui profili di merito la Corte di Appello, lapidaria, sentenziava: “i motivi di appello sono infondati”.

Premettendo, infatti, che la scelta del Tribunale di discostarsi dalle conclusioni della CTU era legittima e condivisibile, la Corte d’Appello ha poi precisato in sentenza “che il rilievo assegnato dai ctu alla obesità della paziente, è, quantomeno, contraddittorio. L’allegazione che l’obesità è un importante fattore di rischio per l’esecuzione dell’anestesia spirale, non può conciliarsi con quella secondo cui questo tipo di anestesia è quella maggiormente indicata per le pazienti obese. Anche … le «altre varianti anatomiche della paziente», non possono essere condivise. Anzitutto l’affermazione è formulata in termini generici ed ipotetici… inoltre, è ragionevole ritenere che, secondo canoni di perizia e prudenza esigibili da chi esercita una professione sanitaria, la accurata verifica delle caratteristiche del paziente debba precedere l’esecuzione di un qualsiasi trattamento terapeutico”.

Anche le altre doglianze rammostrate dall’Assicurazione del sanitario e finalizzate a diminuire sotto il profilo quantitativo il ristoro riconosciuto in capo alla paziente non colpivano nel segno, e, così, venivano respinte dalla Corte di Appello.

Veniva infatti confermato il discostamento (cd. personalizzazione) dai valori base di riferimento utilizzati per la quantificazione in euro del pregiudizio alla salute patito dalla paziente (le cd. Tabelle milanesi, rese dall’Osservatorio di Giustizia presso il Tribunale di Milano e aggiornate, ora, al 2018), il quale trova valida giustificazione nella “particolare afflittività” delle problematiche fisiche insorte in capo alla madre, chiamata ad accudire due figli in tenera età nelle precarie condizioni residuate dal parto cesareo.

Detto discostamento in eccesso era dunque ritenuto, a giudizio della Corte, “giustificato” e anzi “congruo”.

Per cui anche sul tema le rimostranze delle parti appellanti venivano respinte.

Rigettati, così, l’appello principale e incidentale, le spese seguivano la soccombenza. E dunque i diritti risarcitori della paziente, già consacrati all’esito del primo grado di Giudizio davanti al Tribunale di Milano, trovavano conferma d’innanzi alla Corte di Appello di Milano.

Danno odontoiatrico: trovato l’accordo con il dentista e la sua assicurazione e che soddisfa pienamente il paziente

By Casi

 

Al termine di una proficua opera conciliativa con controparte, la paziente rappresentata e difesa dall’Avv. Luigi Lucente riusciva ad ottenere, in tempi ridotti, il risarcimento dei danni subiti, e, quindi, una tutela rapida ed efficace dei propri diritti.

 

L’EPISODIO

La vicenda qui riassunta è quella di una signora che si recava presso uno Studio Dentistico dell’hinterland milanese poiché accusava un fastidioso quadro di mobilità a carico dei denti incisivi centrali superiori, uno dei quali pilastro di una protesi incollata di tre elementi sostitutiva dellincisivo laterale superiore sinistro.

 Il sanitario, titolare dello Studio Dentistico, formulava alla paziente diversi preventivi nel corso del trattamento comprensivi di ablazione tartaro, avulsioni, devitalizzazioni, inserzione di perni moncone, applicazione di denti provvisori, installazione di impianti endo-ossei, perni-moncone sugli impianti e corone oro-ceramica definitive.

Nel corso delle cure odontoiatriche, tuttavia, la paziente lamentava tutta una serie di fastidi di carattere funzionale alle protesi installate ed una chiara difficoltà nelleloquio, specie a causa di una ‘s’ sibilante in precedenza mai avuta. Oltretutto, con il trascorrere del tempo i fastidi agli impianti non accennavano a diminuire, così come persisteva, altresì, anche un insistente sanguinamento gengivale. Inoltre, la paziente poteva constatare come l’applicazione dei denti provvisori fosse insoddisfacente anche da un punto di vista estetico: i denti, infatti, erano troppo sporgenti e di differenti lunghezze, causando alla stessa seri problemi anche per tutta quella che è la componente estetica. Ed al contempo sopraggiungeva anche un ascesso gengivale e, da ultimo, la frattura di uno dei denti provvisori applicati.

LA VERTENZA

A fronte della descritta situazione, la signora si rivolgeva allo Studio Legale Lucente, conferendo allo stesso mandato di intraprendere ogni azione, giudiziale e stragiudiziale, necessaria alla tutela dei propri diritti e legittimi interessi.

La questione veniva sottoposta all’attenzione del Consulente Tecnico di Parte, il Dott. Marco Pecchioli, Medico Chirurgo Odontostomatologo e Consulente iscritto all’Albo del Tribunale di Milano, il quale individuava diversi profili di responsabilità professionale medica. In particolare, si dava risalto a due ordini di notazioni: la prima riguardante l’errata ratio della terapia protesica impostata (cd. approccio terapeutico), e la seconda attinente, invece, alla fase più propriamente  tecnica di esecuzione dei lavori.

Si procedeva, inoltre, alla quantificazione tecnica del danno alla salute emerso in capo alla paziente e delle spese necessarie alla stessa per l’emendamento futuro di questo.

Così, esperita una puntuale istruttoria della pratica, e approfonditi quindi tutti gli aspetti patrimoniali e non patrimoniali emergenti dalla fattispecie, lo Studio Legale Lucente si attivava per prendere contatti con lo Studio Dentistico.

I tentativi di componimento bonario della vertenza, tuttavia, non consentivano di addivenire ad una immediata risoluzione stragiudiziale della controversia.

Pertanto, nel febbraio del 2019 l’Avv. Luigi Lucente incardinava presso il competente Organismo di Mediazione Forense dell’Ordine degli Avvocati il procedimento di mediazione previsto ex lege quale condizione di procedibilità della domanda in materia medico-sanitaria. Tale procedura, tuttavia, non permetteva al pari di giungere a una definizione della lite.

Per l’effetto, nel mese di maggio 2019 veniva notificato alla controparte atto di citazione in Tribunale mirato ad ottenere, in particolare:

  • il risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla paziente, sia in termini di residuali postumi permanenti (cd. invalidità permanente) che transitori (cd. inabilità temporanea).
  • il risarcimento per le spese medico-sanitarie resesi necessarie e che si sarebbero rese necessarie anche in futuro per emendare nel possibile la condizione odontoiatrica della paziente.
  • la risoluzione del contratto medico-professionale instaurato dalla paziente per fatto e colpa esclusivamente imputabili allo Studio Dentistico, con contestuale domanda di integrale ripetizione dei compensi dallo stesso percepiti per prestazioni preventivate e non eseguite ovvero eseguite in modo contrario alla leges artis in ottemperanza al principio di matrice giurisprudenziale per cui “il risarcimento dovuto si estende anche alla restituzione al cliente dei corrispettivi e dei fondi che questi ha dato, il cui pagamento diviene privo di causa in ragione della difformità di esecuzione dellopera professionale rispetto alle regole della materia e nella considerazione della inutilità dellopera e anzi della sua contrarietà allinteresse del cliente” (così, ex plurimis, Corte d’Appello di Milano, sentenza n. 643/2015).
  • il rimborso integrale delle spese legali, di giudizio e di accertamento peritale.
  • nonché i rispettivi interessi legali al saldo e, ove prevista, la rivalutazione monetaria.

Su queste basi veniva dunque introitato il relativo procedimento civile (TRIB. MILANO, SEZ. I, Dott.ssa V. Boroni, R.G. N. 27370/2019).

L’ACCORDO TRANSATTIVO.

Parallelamente, nel corso della fase introduttiva del procedimento incardinato venivano intavolate nuove ed ulteriori trattative finalizzate ad una chiusura della vertenza fuori dalle sedi giudiziarie; trattative coinvolgenti sia lo Studio Dentistico che l’Istituto Assicurativo dallo stesso interpellato quale proprio Ente Assicurativo attivato per la copertura del rischio da R.C. professionale.

Ed in quest’ottica, tramite gli uffici in chiave conciliativa dello Studio Legale Lucente si riusciva a giungere ad un valido accordo tra le parti: una soluzione valida e celere per la tutela dei diritti della paziente.

Infatti, con atto di transazione del 9 dicembre 2019 – ossia a non più di 6 mesi dall’instaurazione del Giudizio – la paziente otteneva l’assunzione di un obbligo contrattuale da parte delle citate controparti di versare in suo favore una somma pari a circa € 30.000,00 a titolo di risarcimento del danno, restituzione dei compensi professionali pagati e di rimborso delle spese vive processuali e peritali sostenute, oltre anche ad un ulteriore importo a titolo di rimborso delle spese legali sostenute.

Somme, queste, che venivano corrisposte in breve tempo tramite versamento diretto sul conto corrente.

Operazione di ernia inguinale ad impegno scrotale produttiva di seri danni al paziente: clinica e medici condannati al risarcimento del danno.

By Casi

Operazione di ernia inguinale ad impegno scrotale produttiva di seri danni al paziente: clinica e medici condannati al risarcimento del danno.

Rappresentato e difeso dall’Avv. Luigi Lucente, la vittima di una serie di errate manovre chirurgiche coinvolgenti l’apparato uro-genitale ha trovato ristoro per i danni subiti (SENTENZA TRIB. MILANO, SEZ. I, 19.11.2019, N. 10651).

Correva il mese di luglio 2014 quando presso una nota clinica privata milanese veniva previsto un intervento chirurgico di routine nel campo dell’urologia: una ernioalloplastica inguinale sec. Lichtenstein (come riportava il relativo verbale operatorio).

Al paziente quarantanovenne, infatti, era stata fornita una indicazione chirurgica in ragione della diagnosi di “ernia inguinale destra ad impegno scrotale”.

In sede operatoria non veniva evidenziata alcuna complicanza od anomalia di sorta. Giacché il giorno seguente l’operazione il paziente veniva dimesso in buone condizioni generali e con un moderato quadro algico delimitato alla zona interessata dall’intervento.

Tuttavia, nei giorni seguenti alle dimissioni la sintomatologia dolorosa non accennava a diminuire, ma, al contrario, si acuiva sin a indurre il paziente a recarsi di sua sponte presso la medesima clinica, anticipando di fatto di alcuni giorni la visita di controllo prefissata in sede di ricovero. In quell’occasione veniva riscontrata una condizione patologica grave, tale da comportare un nuovo ricovero della durata di sette giorni, a cui sarebbero seguiti, poi, diversi mesi di terapia farmacologica di natura antalgica, antinfiammatoria ed antibiotica.

All’esito della vicissitudine occorsa, residuava in capo al paziente una condizione clinica patologica stabilizzata, la quale determinava lo stesso – ancora non capacitatosi della natura del problema che lo continuava ad affliggere – a rivolgersi al Dott. Maurizio Bruni (medico specialista in Medicina Legale e delle Assicurazioni nonché specialista in Chirurgia Generale – Urologia) per un’approfondita analisi della vicenda e per l’eventuale individuazione di profili di responsabilità medico-sanitaria.

Il perito, scrutinata la vicenda clinica, disposti ed ottenuti appositi accertamenti strumentali, ed attuato un esame dell’intero incartamento medico-sanitario disponibile, individuava chiari profili di responsabilità intra-operatoria nella condotta posta in essere dagli operatori chirurgici in occasione dell’intervento occorso nel luglio del 2014. La dinamica produttiva del danno biologico – spiegava il perito – trovava origine in primis in disacconce manovre operatorie, che avevano comportato per il paziente una “necrosi dell’organo, che ora appare palpatoriamente come una struttura di consistenza aumentata (fibrotica, verosimilmente) con perdita sia della componente endocrina, sia della componente spermatogenetica … [e con] una ridotta produzione di testosterone (totale ai limiti inferiori, libero ben al di sotto del minimo)”.

Il paziente si rivolgeva dunque allo Studio Legale Lucente, al quale veniva conferito mandato di intraprendere ogni azione, anche giudiziale, necessaria alla tutela dei diritti e legittimi interessi del proprio assistito, vittima di malpratica medica. La questione veniva così dapprima istruita, sia documentalmente che attraverso l’individuazione di testimoni. Veniva quindi riassunta la cronistoria; attribuito il corretto inquadramento giuridico alla vicenda; ed enucleati tutti i vividi motivi di sofferenza e disagio che avevano caratterizzavano la delicata storia del paziente.

Dopodiché – una volta rivelatisi infruttuosi i tentativi di addivenire ad un ricomponimento bonario della vertenza, al pari anche del seguente tentativo di mediazione previsto ratione temporis quale condizione di procedibilità della domanda in materia medico-sanitaria – veniva incardinato d’innanzi al Tribunale di Milano il procedimento civile finalizzato ad ottenere il ristoro di tutti i danni, alla salute ma anche economici, capitati al paziente. Ed in particolare, venivano chiamati in giudizio la clinica presso cui si era tenuto l’atto chirurgico ed i sanitari responsabili del medesimo (I° e II° operatore), con richiesta al Tribunale meneghino di una loro condanna solidale al risarcimento del danno.

Il Tribunale milanese disponeva Consulenza Tecnica medica d’Ufficio, con collegio peritale composto da un dottore specialista in medicina legale e delle assicurazioni, un dottore specialista in urologia ed un dottore specialista in chirurgia generale.

Al termine delle operazioni di accertamento, l’elaborato peritale depositato dai Consulenti del Tribunale ricalcava e confermava i tratti della difesa attorea patrocinata dallo Studio Legale Lucente, affermando che “Da tempo sono state elaborate strategie atte a ridurre il potenziale lesivo delle manovre intra-operatorie. Tra queste si annoverano:

[1] l’adozione di una tecnica chirurgica che rispetti le strutture anatomiche del funicolo, riservando ad esempio la manovra di legatura del muscolo cremastere a pochi e selezionati casi [tra cui non rientrava, però, quello di specie];

[2] l’impiego di supporti morbidi e flessibili, quali fettucce di gomma in luogo dei divaricatori di metallo quali la pinza di Bottini nella mobilizzazione del funicolo;

[3] la sezione del sacco erniario in corrispondenza dell’orifizio inguinale interno”.

Nel caso di specie, invece – hanno proseguito i Consulenti del Tribunale –: “dalla descrizione dell’atto risulta che nel corso dell’intervento furono disattese le predette raccomandazioni, ossia:

[1] fu praticata la sezione dei fasci del muscolo cremastere;

[2] si procedette con la completa dissezione del sacco erniario;

[3] per la mobilizzazione del testicolo, si fece ricorso alla pinza di Bottini”.

Di conseguenza: “l’esecuzione tecnica dell’intervento di «ernioalloplastica inguinale sec. Lichtenstein» appare censurabile”.

Inoltre il Collegio peritale dell’Ufficio confermava la sussistenza di un danno non patrimoniale e un nesso di causa intercorrente tra il danno prodotto al paziente e l’atto chirurgico (“nell’ambito del giudizio probabilistico è da ritenere che la manipolazione intraoperatoria, per quanto detto non sufficientemente cauta, delle strutture vascolari del funicolo spermatico abbia assunto ruolo causale nel determinismo del danno ischemico del testicolo destro patito”).

A fronte dell’esito peritale l’Avv. Luigi Lucente richiamava quindi l’attenzione del Giudicante sulla riconosciuta sussistenza nel caso di specie di tutti gli elementi costitutivi della domanda risarcitoria avanzata dal paziente, chiedendone, di conseguenza, l’accoglimento.

Così il Magistrato incaricato, una volta ritenuto di non dover disporre l’ammissione di ulteriori mezzi istruttori, e, quindi, di avere già a sua disposizione tutti gli elementi necessari ai fini del giudizio, dichiarava la causa matura per la decisione e concedeva i termini di rito per gli atti difensivi conclusivi.

Seguiva pertanto, come da rito, la sentenza.

Nel corpo del provvedimento decisorio il Tribunale così disponeva: “Nel merito, le domande spiegate da **** possono essere accolte … Dalle risultanze della consulenza tecnica emerge incontrovertibilmente che la condotta professionale dei sanitari **** e **** non si è conformata alle leges artis in materia… Accertata la sussistenza di una condotta colposa in capo ai sanitari, è stato condivisibilmente evidenziato come essa sia eziologicamente riconducibile al danno patito dall’attore… Per questi motivi Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando:

I. Accoglie la domanda di parte attrice e, per l’effetto, condanna la **** e i sanitari **** e **** in solido tra loro a risarcire il danno cagionato al paziente *****;

II. Condanna i convenuti ****, **** e **** in solido tra loro a rimborsare all’attore le spese di lite …

III. Pone definitivamente a carico dei convenuti ****, **** e **** le spese di Consulenza Tecnica di Ufficio del presente procedimento”.

Paziente resa invalida da una lesione al midollo spinale occorsa durante il parto cesareo

By Casi

Paziente resa invalida da una lesione al midollo spinale occorsa durante il parto cesareo (SENTENZA TRIB. MILANO, SEZ. I, 04.06.2019, N. 5288)

Il Tribunale, facendo propria la tesi patrocinata dalla difesa dell’Avv. Luigi Lucente, si dissocia dal parere tecnico negativo reso dai propri Consulenti Tecnici e, per l’effetto, condanna al risarcimento del danno la struttura ospedaliera ed il medico anestesista convenuti. In sede di parto cesareo il sanitario ha praticato l’iniezione spinale in uno spazio inter-vertebrale non raccomandato, provocando alla paziente una lesione midollare irreversibile.

LA CRONISTORIA.

La vicenda è quella della notte tra il 3 e il 4 gennaio 2014; notte in cui una donna in dolce attesa veniva ricoverata presso una struttura di rilievo nel panorama milanese dell’ostetricia e della ginecologia per dare alla luce il proprio secondogenito, un maschietto di nome Francesco.

La signora si trovava a metà della trentanovesima settimana. Pesava 109 Kg (con accrescimento ponderale pari a +13 Kg), per una statura di 170 cm. Alle ore 20.05 del 3 gennaio la partoriente veniva così portata in sala parto a causa della rottura prematura delle membrane, ma alle ore 00.15 doveva essere trasferita in sala operatoria per essere sottoposta a parto cesareo. Ivi l’anestesista di turno eseguiva puntura lombare al fine di anestetizzare la donna, ma, invece di inserire l’ago nella schiena al punto più basso raccomandato (tra gli spazi inter-vertebrali L3 e L4), decideva di introdurre l’ago in un punto più alto e rischioso (ossia tra gli interspazi L2 e L3), ed inoltre, errando anche nell’individuazione del punto esatto in cui pungere, finiva per praticare il foro ed iniettare la miscela anestetica in un sito controindicato – ossia tra gli interspazi L1 e L2, se non ancora più in alto – ledendo il sottostante midollo spinale. Oltretutto, una volta inserito l’ago e constatata la conseguente reazione algica della paziente, che infatti accusava dolore e aveva movimenti involontari degli arti inferiori, l’anestesista non ritraeva neppure l’ago per operare un riposizionamento, come avrebbe invece nel caso dovuto, ma al contrario ritraeva parzialmente l’ago ed iniettava comunque la miscela anestetica.

In ogni caso il parto si svolgeva regolarmente, e così alle ore 00.55 il piccolo Francesco veniva al mondo. Alle 08.35 della mattina del 4 gennaio, tuttavia, quando la puerpera si trovava in reparto da ormai qualche ora, veniva obiettivata una “mobilità all’arto inferiore ridotta” e rilevate delle “algie sopra il ginocchio dell’arto inferiore sinistro”. Per tutto l’arco della giornata tale sintomatologia algo-disfunzionale agli arti inferiori persisteva, e così anche fino a quella sera, quando, alle ore 21:00, veniva eseguito un controllo anestesiologico così refertato: “chiamata per ipotomia gamba sinistra. La pz è stata sottoposta a T.C. in a. spinale e riferisce “scossa” all’esecuzione della manovra. Non deficit sensitivi ma deficit motori al tibiale anteriore sx e deficit motorio alle dita del piede sinistro (III, IV, V)”. I primi sintomi di una diagnosi infausta.

Nei giorni successivi si alternavano diverse consulenze di specialisti mirate a comprendere l’origine dell’algia, fino a che, in data 07.01.2014, la paziente veniva sottoposta ad RMN, che sanciva la presenza di un grave danno midollare cagionato dell’anestesia spinale effettuata in luogo del parto cesareo. Esito, questo, confermato poi anche dai successivi accertamenti e controlli. Data l’irreversibilità e la stabilità del quadro clinico, a distanza di appena qualche giorno la neomamma poteva essere dimessa, ma la sua vita da quel dì sarebbe stata fortemente condizionata dalla lesione subita.

Le conseguenze, infatti, erano severe. “Claudicatio di fuga, steppage del piede, e rischio di caduta per eversione traumatica del piede stesso… Complessivamente si deve ritenere ridotta l’autonomia locomotoria, con impossibilità di corsa e difficoltà e rischio di caduta nelle scale e su terreni sconnessi o scivolosi o in condizioni di scarsa visibilità”, si legge nei referti. All’atto pratico la paziente non riesce a camminare se non con l’utilizzo di un tutore; non può indossare scarpe femminili; è costretta a portare dispositivi ortopedici e calzature speciali; ha dovuto rinunciare ai propri hobbies e alle proprie passioni, quali, su tutti, il tennis, le gite fuori porta con gli amici e le lunghe camminate. Veniva introdotto, infine, anche un ciclo di consultazione psicologica mirato ad affrontare questo stravolgimento di vita non indifferente. A distanza di qualche mese le veniva altresì riconosciuta una percentuale di invalidità civile pari al 34%.

L’ISTRUTTORIA DELLA CAUSA ED IL PROCESSO.

A questo punto la signora decideva di rivolgersi allo Studio Legale Lucente al fine di veder tutelati i propri diritti e, così, ottenere il risarcimento per i danni subiti. La stessa veniva affiancata da dottori specialisti del settore medico-sanitario, quali il Dott. Andrea Albertin, Direttore del Reparto di Rianimazione e del Servizio di Anestesia dell’Ospedale San Giuseppe-Multimedica di Milano e Castellanza, nonché Professore presso l’Università degli Studi di Milano, ed i Dott.ri Massimo e Daniele Sher, esperti di comprovata esperienza nel campo Medico-chirurgico, Medico-legale. Istruita nel dettaglio, così, la vicenda, ed esperito anche il tentativo di mediazione previsto come condizione di procedibilità dalla legge (con esito negativo), con atto di citazione del 31.03.2015 venivano convenuti in giudizio dinnanzi al Tribunale di Milano sia l’Istituto clinico ove si era perpetrato l’atto sanitario, sia il medico anestesista che si era materialmente occupato della puntura spinale. In sede giudiziale l’attrice domandava dunque il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito, producendo copiosa documentazione e mettendo a disposizione diversi testimoni allo scopo di dimostrare tutti i molteplici risvolti pregiudizievoli, anche in ambito lavorativo, scaturiti dalla vicenda. Entrambi i convenuti si costituivano in Giudizio chiedendo il rigetto delle domande attoree; rivendicando la correttezza del proprio operato, a loro avviso reso più difficoltoso dalla condizione fisica della paziente (109 chili di peso al momento del ricovero); e denunciando di aver mostrato ogni scrupolo nella ricerca e nell’individuazione del punto ove inserire l’ago per l’anestesia. Si costituiva in giudizio anche l’Istituto Assicurativo coinvolto nel procedimento dal dottore, anestesista, il quale aveva domandato di essere dallo stesso garantito in caso di accertata responsabilità.

Nel corso del procedimento veniva esperita Consulenza Tecnica medico-legale d’Ufficio finalizzata ad evidenziare eventuali profili di responsabilità in capo ai convenuti, e, dunque, in caso di riscontro positivo, ad indicare e quantificare i danni etiologicamente connessi agli stessi.

All’esito delle operazioni peritali i Consulenti nominati non mettevano in discussione la sussistenza del lamentato danno (“All’arto inferiore di sinistra si evidenziano esiti distrofici in regione calcaneale … completo deficit di dorsiflessione del piede e dell’alluce, ipoestesia tattile e puntoria limitata però alla sola gamba. Per quanto riguarda i riflessi osteotendinei risultano ridotti se comparati con l’arto inferiore destro”), né tantomeno l’esistenza di un nesso eziologico in grado di ricollegare tale danno psico-fisico alla puntura lombare avvenuta in sede di parto cesareo (“Nel caso della sig.ra **** senza dubbio esiste un nesso ben identificato tra il deficit neurologico da lei subito e l’anestesia a cui fu sottoposta il giorno 04.01.2014”). Quanto, però, all’individuazione di specifici motivi di addebito, il Collegio peritale addiveniva ad un mancato riconoscimento di profili di colpevolezza, e dunque di responsabilità, in ragione – in primis – dell’asserita presenza di rilevanti caratteristiche fisiche/cliniche della paziente che nel caso di specie avrebbero condizionato il buon esito dell’atto medico, quali un’obesità congenita e presunte “varianti anatomiche” (un cono midollare più lungo del normale ed una Tethered Cord Syndrome); ed in secundis, della coincidenza tra il comportamento tenuto dal sanitario e quanto avviene “normalmente” in sede di anestesia spinale. Su quest’ultimo punto in particolare, infatti, i CTU rilevavano che il sanitario, mirando a pungere nell’intercapedine presente tra le vertebre L2 ed L3, e così poi pungendo per errore in eccesso nell’intercapedine superiore (tra le vertebre L2 ed L1) se non addirittura più in alto, ove ha sede il midollo spinale, non avrebbe comunque tenuto una condotta rimproverabile a titolo di colpa poiché il punto lombare scelto (tra L2 ed L3), seppur non consigliato poiché al di sopra della Linea di Tuffier (la linea intercorrente tra le vertebre L3 ed L4), sarebbe comunque quello “comunemente” scelto dagli operatori in casi consimili. E così, analogamente, l’operato del sanitario non dovrebbe ritenersi censurabile neppure per l’errata individuazione del punto esatto in cui pungere, e la conseguente immissione dell’ago spinale in uno spazio inter-vertebrale superiore rispetto a quello prefissato, in quanto tale errore sarebbe da considerarsi sempre scusabile, essendo compiuto “nel 51%” dei casi dal medico che effettua tale pratica medica, anche se esperto.

Sulla relazione dei Consulenti dell’Ufficio depositata il 12.09.2017 l’Avv. Luigi Lucente sollevava eccezione di nullità, chiedendo al Magistrato, in subordine, di domandare dei chiarimenti ai CTU. In particolare, l’Avv. Lucente soffermava l’attenzione sulla circostanza che tali presunte “varianti anatomiche” fossero in realtà il frutto di una distorta interpretazione del caso da parte dei periti dell’Ufficio, del tutto disancorata dalle reali risultanze documentali del processo, e che oltretutto le stesse, al pari della condizione di obesità, nella valutazione peritale non potessero comunque assurgere ad imprevedibile complicanza, in quanto a ben vedere la signora aveva invero già subito la medesima procedura anestesiologica tre anni prima, durante il parto cesareo avvenuto in occasione della nascita del primogenito, senza alcun tipo di complicanza o strascico di sorta. A fronte dell’istanza attorea, con ordinanza del 15.11.2017 il Giudice chiedeva ai propri Consulenti specifici chiarimenti. Dopodiché, rigettate le ulteriori istanze istruttorie, la causa veniva trattenuta in decisione.

IL VERDETTO.

In data 04.06.2019 il Tribunale di Milano, sez. I, Dott.ssa Massari, pubblicava la sentenza n. 5288/2019, con la quale prendeva le distanze dalle conclusioni dei Consulenti Tecnici dell’Ufficio, ed addiveniva ad un riconoscimento di responsabilità in capo ai convenuti. “Le conclusioni cui sono giunti i periti dell’ufficio non sono pienamente condivisibili, poiché parzialmente in contrasto con alcune affermazioni degli stessi periti”, si legge nel corpo della pronuncia. In buona sostanza l’Ill.mo Giudicante, sul punto “aderendo alle osservazioni della difesa dell’attrice”, ha affermato che se è vero che “la scienza medica consiglia «di introdurre l’ago per anestesia subaracnoidea non al di sopra della linea di Tuffier» ovvero a livello L4-L5”, allora necessariamente la condotta tenuta dal sanitario nel caso in esame non può che ritenersi censurabile, giacché “l’inserimento dell’ago, che avrebbe dovuto avvenire in L4-L5, è stato fatto in L1-L2 e dunque senza rispetto delle raccomandazioni scientifiche”. Di poco significato, infatti, venivano ritenute le considerazioni addotte dai CTU in perizia per cui il medico anestesista sarebbe giustificabile in quanto si sarebbe limitato a dar corso ad una qualche diffusa prassi, essendo che “tale considerazione risulta non determinante” per due ordini di ragioni: “poiché nel caso di specie l’introduzione dell’ago è [poi comunque] avvenuta attraverso l’interspazio L1-L2 … [e quindi] oltre il punto che, sebbene più alto, i consulenti dell’ufficio ritengono ‘tollerabile’ di L2-L3”; e tenuto conto di come, a ben vedere, gli stessi CTU sostengono in ogni caso che è sempre “bene scegliere il livello di accesso al rachide più basso possibile e che la puntura a livello L2-L3 espone ad un maggior rischio di puntura del cono midollare”. Inoltre, non sono state del pari ritenute meritevoli di condivisione le doglianze delle parti convenute volte ad addossare l’infausto evento alle connaturate condizioni fisiche e/o anatomiche della paziente, dato che queste – oltre a non trovare significativo riscontro in atti – ancor prima si appalesavano in contrasto con una circostanza non trascurabile e messa in grande risalto dalla difesa attorea, ossia che la signora tre anni prima avesse già partorito facendo ricorso sempre al parto cesareo con anestesia spinale, e che in quella occasione né la similare costituzione corporea (di 108 kg, contro i 109 kg del parto oggetto di esame), né tantomeno la presenza di indimostrate anomalie anatomiche aveva impedito o anche solo in qualche modo interferito con il corretto svolgimento della procedura spinale. Per cui a parere dell’Organo giudicante nel caso de quo deve ravvisarsi “imperizia dell’operatore nell’esecuzione dell’anestesia per aver introdotto l’ago in uno spazio intervertebrale non corretto”: in occasione del (secondo) parto cesareo avvenuto nel 2014, infatti, “la puntura spinale non è stata eseguita secondo la miglior scienza medica e con la dovuta prudenza, diligenza e perizia, dal medico anestesista”. Da qui dunque la condanna di entrambi i convenuti, struttura nosocomiale e medico anestesista, al risarcimento del danno subito dalla paziente. Con applicazione dei criteri equitativi e dei più noti barémes valutativi di matrice giurisprudenziale per la commisurazione delle singole sotto-voci di danno non patrimoniale, individuazione del danno patrimoniale da ristorarsi, ed aggiunta di rimborso delle spese di giudizio e di interessi.

Paziente curata per anni per una malattia che, invece, non aveva…

By Casi

Rappresentata e difesa dall’Avv. Luigi Lucente, la paziente curata per una patologia in realtà inesistente trovava ristoro per i danni non patrimoniali subiti.

CORREVA IL MESE DI SETTEMBRE 2002, quando una signora di 53 anni e residente nella provincia di Milano, mentre si recava sul posto di lavoro accusava un formicolio con origine agli arti inferiori, con offuscamento della vista e sensazione di svenimento. Una strana sensazione che, però, si risolveva spontaneamente in pochi minuti, permettendo alla signora di raggiungere la sua destinazione senza necessità di un intervento da parte degli astanti ovvero dell’ambulanza. Rimanendo tuttavia preoccupata per il proprio stato di salute, a distanza di appena qualche giorno la signora si recava presso una struttura ospedaliera del posto e si affidava ad un noto specialista in neurologia. Nel primo incontro, quest’ultimo eseguiva un esame obiettivo neurologico, e consigliava l’esecuzione di un RMN encefalo e di un Elettroencefalogramma (EEG) allo scopo di escludere una forma di epilessia temporale.

Nonostante gli accertamenti risultassero negativi e/o aspecifici, però, in occasione della visita successiva il sanitario – senza effettuare un periodo di osservazione clinica, ovvero alcun ulteriore accertamento neurofisiologico e senza altresì considerare ipotesi di diagnostica differenziale – effettuava immediatamente una diagnosi di epilessia con “crisi parziali” e, di conseguenza, prescriveva alla paziente una terapia farmacologica comiziale basata su carbamazepina (Tegretol 200 mg fino a 3 volte al dì).

Da allora passavano giorni, mesi e poi addirittura anni, nei quali la signora si recava con cadenza semestrale a visita dal dottore, senza che fosse mai eseguito alcun ulteriore approfondimento. Per tutto questo tempo, quindi, la stessa era convinta di avere una patologia invalidante ed a alto rischio di recidiva come l’epilessia, e per questa, oltretutto, assumeva una terapia farmacologica che le provocava fastidi e forti preoccupazioni quali, ad esempio, demotivazione, sonnolenza, affaticamento, sensibilità cutanea e perdita dei capelli.

In data 16 dicembre 2010, però, la svolta: per mero scrupolo e dietro insistenza della figlia, la signora si determinava a rivolgersi ad un altro specialista neurologo presso differente Istituto Neurologico di Milano per avere un differente parere specialistico, e, in quella sede, il nuovo specialista metteva subito in forte dubbio la natura epilettica dei fenomeni accessuali descritti, prescrivendo alcuni esami strumentali ( quali il polisonnogramma) volti ad uno approfondimento diagnostico dai quali otteneva in poco tempo la conferma di un’agghiacciante verità…

Nel caso della signora, “non si osservano anomalie di significato epilettogeno”…

Da lì a poco, quindi, la stessa smetteva di assumere la terapia farmacologica antiepilettica senza comunque mai manifestare alcun tipo di nuovo evento riconducibile a tale patologia.

A FRONTE DEI FATTI OCCORSI la paziente si rivolgeva allo Studio Legale Lucente al fine di veder tutelati i propri diritti e, così, ottenere il risarcimento per i danni subiti per l’aver ritenuto per anni di essere affetta da un patologia in realtà insussistente, nonché per l’inutile assunzione di un farmaco antiepilettico.

Con atto di citazione notificato in data 21.01.2015, venivano convenuti in giudizio dinnanzi al Tribunale di Milano sia l’Istituto clinico presso il quale la paziente si era recata a visita per tutti questi anni, sia il neurologo che l’aveva seguita fin dalla prima visita e per tutto l’iter diagnostico-terapeutico. In sede giudiziale l’attrice domandava il ristoro del danno patrimoniale e non patrimoniale subito, e a sostegno della sua tesi veniva prodotta diversa documentazione comprovante lo stato di malessere in cui la stessa era versata a causa dell’assunzione del farmaco.

Sia il nosocomio che il sanitario convenuti si costituivano in Giudizio.

Nel corso del procedimento veniva esperita Consulenza Tecnica medico-legale d’Ufficio mirata ad evidenziare eventuali profili di responsabilità in capo ai convenuti, e così ad individuare e quantificare i danni psico-fisici patiti dall’attrice in nesso di causa con gli stessi.

All’esito della valutazione peritale, i Consulenti medici del Tribunale pur giustificando – in modo peraltro discutibile – l’iniziale diagnosi, ritenendo che i denunciati sintomi “potevano accordarsi ed essere inquadrati nell’ambito di crisi epilettiche parziali con e senza generalizzazione”, precisavano, quantomeno e comunque, che, in casi consimili, “le revisioni di letteratura attuali considerano la possibilità di sospendere la terapia in un range tra i due e i quattro anni dall’inizio del trattamento”, cosa che , diversamente e colposamente, nel caso di specie, non era mai stata presa neppure in considerazione.

Il Tribunale senza dare ascolto alle critiche attoree – che denunciavano la frettolosità e sufficienza della diagnosi di una malattia così grave senza indagare preventivamente ipotesi alternative, non adeguatamente considerate in sede di Consulenza dai Periti del Tribunale – tratteneva la causa in decisione.

IN DATA 28.05.2018 IL TRIBUNALE DI MILANO PUBBLICAVA LA SENTENZA N. 2965/2018, enunciando nel corpo della stessa quanto qui di seguito riportato: “Ritiene il Tribunale rilevabile a carico del professionista convenuto una violazione delle regole di perizia e prudenza professionale laddove non procedeva alla sospensione del farmaco a distanza di due anni dall’ultima crisi parziale comiziale presentata dalla paziente […] e databile al gennaio 2005… Ne deriva che dal gennaio 2007, in applicazione delle regole di prudenza nella valutazione di costi/benefici della cura, il professionista convenuto avrebbe dovuto: informare la paziente della opportunità di sospendere il farmaco e dei tempi di attuazione a tal fine indicati dai protocolli in allora in essere; procedere alla prescrizione di nuove e risolutive indagini diagnostiche per immagini e a EEG prolungato; valutarne gli esiti, verosimilmente negativi. Gli adempimenti indicati, che non risultano essere stati osservati, avrebbero portato un neurologo diligente a sospendere la terapia”.

Con precipuo riferimento, poi, al danno subito dalla paziente, il Tribunale meneghino affermava il principio di diritto della risarcibilità “non solo delle lesioni all’integrità fisica derivanti da diagnosi e cure erroneamente prestate per una malattia inesistente, o meno grave, ma specificamente, della sofferenza morale correlata a quella specifica violazione”. Il richiamo del Giudice in proposito è, infatti, a Cass. n. 1551/2007; sentenza nella quale si afferma: “poiché l’intervento del medico riguarda non tanto o non solo la fisicità del soggetto ma la persona nella sua integrità (si cura non la malattia ma il malato), è ragionevole ritenere che eventuali errori diagnostici compromettano, oltre alla salute fisica, l’equilibrio psichico della persona”.

Fatto proprio, infatti, l’insegnamento della citata pronuncia, l’Ill.mo Giudicante considerava come, anche nel caso di specie: “può ravvisarsi quale conseguenza dell’inadempimento addebitabile all’esercente la professione sanitaria un danno non patrimoniale risarcibile anche in assenza di un danno biologico individuabile secondo le bareme medico legali in uso… Non può sottacersi che parte attrice presentava un forte disagio fisico avendo sofferto di disturbi che, sebbene non integranti uno stato di vera e propria patologia […] provocavano tuttavia uno stato di costante malessere fisico, con significative ripercussioni sul tono dell’umore e del complessivo benessere psicofisico della persona. Basti pensare al defluvium capillare ed alla incidenza che tale disturbo comporta in una donna nella percezione di sé; ai problemi dermatologici ed ai fastidi correlati all’esposizione alla luce solare, alla stanchezza cronica ed allo stato di sonnolenza usualmente associati all’assunzione prolungata di farmaci antiepilettici. Da ultimo, ma non meno importante, non può essere ignorata e deve trovare adeguato ristoro la sofferenza della signora derivante dal sentirsi sottoposta per quattro lunghi anni ad un rischio, in realtà inesistente, di reiterazione di attacchi epilettici così significativo da non poter procedere ad una sospensione della terapia ed inevitabilmente incidente nelle dinamiche relazionali e nelle scelta della vita quotidiana della paziente”.

Tutte queste circostanze, quindi, giustificavano la condanna solidale dei convenuti al risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla signora, nella somma liquidata in via equitativa dal Giudicante.