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RAGAZZO PERDE UN RENE a causa del non corretto intervento di pielotomia retrograda

By Casi

RAGAZZO PERDE UN RENE a causa del non corretto intervento di pielotomia retrograda. Il Tribunale di Milano condanna il chirurgo e la Casa di Cura a risarcire i danni.

Con atto di citazione a firma dell’avvocato Luigi Lucente, un giovane cliente nel mese di giugno del 2009, ha chiamato in giudizio avanti il  Tribunale di Milano il chirurgo e l’Istituto clinico affinché fosse accertata e dichiarata la responsabilità di questi ultimi in ordine agli esiti negativi dell’intervento chirurgico al quale era stato sottoposto in data 4 aprile 2008.
A  sostegno della domanda, veniva dedotto : che in data 03.04.2008 il giovane veniva sottoposto a visita, trattenuto e ricoverato presso il reparto di Urologia dell’Istituto Clinico; che in pari data lo stesso veniva visitato dal chirurgo, il quale decideva di sottoporlo, il giorno successivo, ossia il 04.04.2008, ad intervento chirurgico di endopielotomia retrograda, senza tuttavia eseguire in fase pre operatoria e/o intra operatoria  esami diagnostici atti a stabilire il decorso della vascolarizzazione dei vasi perirenali e il corretto approccio terapeutico da seguire; che nel corso del ridetto intervento di endopielotomia retrograda al giovane paziente veniva reciso un vaso con conseguente “shock emorragico da versamento ematico perirenale”, in conseguenza del quale alle ore 24.00 del 04.04.2008  veniva sottoposto, sempre presso il medesimo Istituto Clinico, ad intervento di “nefrectomia di salvataggio” del rene sinistro.

In sintesi, dunque, e per parte attrice, l’aver omesso di eseguire esami diagnostici preliminari e il non avere adottato un corretto approccio chirurgico nel corso dell’intervento, hanno senza dubbio causato al paziente le infauste conseguenze emorragiche e, così ,la perdita del rene sinistro alla giovane età di 22 anni, con rischio concreto in itinere di morire.

Il medico operatore a sua difesa ha dichiarato che in realtà avrebbe fatto un ecodoppler preoperatorio dei vasi renali al fine di verificare l’eventuale presenza di vasi anomali sul giunto pielouretrale ma non disponeva del referto in quanto era stato consegnato al paziente e perciò produceva una dichiarazione in giudizio di un collega dello stesso Istituto Clinico che attestava sotto la propria responsabilità di ricordare sia di avere effettuato l’esame sul paziente e anche l’esito dell’accertamento.

Naturalmente, tale documento è stato immediatamente contestato dall’avv. Lucente perché evidentemente privo di dignità. Come specificato non trattavasi, innanzitutto, di un referto, ma di una dichiarazione resa da un collega del convenuto che a distanza di ben 10 mesi  dalla presunta effettuazione dell’esame ricordava chiaramente sia il nome del paziente che l’esito dell’esame il che è apparso evidentemente alquanto singolare(!), ma anche perché, se un tale esame fosse stato realmente eseguito, il relativo referto sarebbe stato a suo tempo allegato alla cartella clinica del paziente costituendo –l’esame stesso- il presupposto per poter effettuare l’intervento descritto con tecnica endoscopica e dal momento che, fra l’altro, secondo la stessa dichiarazione prodotta dal medico a sua difesa, il predetto esame sarebbe stato effettuato proprio il giorno prima dell’intervento(!).

Sia i Consulenti nominati dal Tribunale e, così, anche il Giudice non hanno, infatti, tenuto conto della dichiarazione prodotta dal medico.

Il medico convenuto, inoltre, nella propria difesa ha aggiunto: “…[ poiché] sembra quasi  che l’attore ( paziente) si dolga di essere stato operato in assenza di ragioni di urgenza: l’intervento venne praticato in quanto, pur non sussistendo ragioni d’urgenza, neppure sussisteva alcuna ragione, di alcun genere, perché fosse opportuno o necessario rinviarlo … “ e ha concluso, precisando che: “ E’ appena il caso di sottolineare che la perdita di un rene non inibisce, a chi la subisca, la possibilità di mantenere una condizione di vita assolutamente normale.

Con la sentenza del 15.05.2014 n. 6380/2014  il Tribunale di Milano, Sezione V Civile,  ha accolto la tesi difensiva esposta dall’ Avv.to Luigi Lucente in favore del proprio assistito motivando in questi termini: “… nel merito i ctu nominati, effettuata accurata analisi dell’anamnesi prossima ed esaminate le ct di parte, hanno svolto ampie considerazioni cliniche e medico-legali sul caso, per concludere che il trattamento clinico, che portò alla prima operazione per via endoscopica, di “pielotomia retrograda”, non fu condotto, dalla fase diagnostica preoperatoria fino alla fase chirurgica, in maniera corretta.
L’intervento predetto era indicato per la patologia diagnosticata (stenosi del giunto pieloureterale sinistro … ), ma non fu eseguito a regola d’arte.
I ctu hanno in particolare sottolineato che, prima di optare per l’intervento endoscopico, sarebbe stato più prudente effettuare ulteriori accertamenti diagnostici strumentali, al fine di avere la più completa nozione anatomica della regione operatoria.
Le complicanze emorragiche in questo tipo di interventi si verificano infatti per lesione di arterie o vene decorrenti in prossimità del giunto pielo uretrale. Sarebbe stata perciò consigliata l’esecuzione di arteriografia o altro esame di imaging; ciò avrebbe consentito di sostituire l’intervento in via endoscopica con un intervento a cielo aperto o in laparoscopia per una migliore visione e preservazione delle strutture.
Inoltre i ctu hanno rilevato che le condizioni generali del soggetto avrebbero permesso di differire il trattamento, con possibilità di effettuare esami (scintigrafia renale sequenziale) orientali  a stabilire la funzione renale separata.
In definitiva la metodica endoscopica comportò il sezionamento  della porzione ristretta della via pieloureterale urinaria con energia diatermica sotto visione diretta interna e la complicanza gravemente emorragica costituì l’evoluzione clinica e quindi la conseguenza di tale manovra, con ogni probabilità incongrua, tale da provocare lesioni meccaniche.
Quanto al secondo intervento, di nefrectomia, effettuato d’urgenza, da considerare irrinunciabile, per salvare la vita del paziente, fu eseguito  a regola d’arte.
Il sacrificio del rene … fu la conseguenza del non corretto intervento di pielotomia retrograda e pertanto il relativo danno biologico redisuato è da imputare ai due convenuti, sanitario e struttura.
Delle conseguenze dannose subite da … devono rispondere entrambi i convenuti, il dott. … quale chirurgo operatore, e l’Istituto … , quale titolare di autonomo rapporto (contratto di spedalità).
Come ha più volte rilevato la suprema Corte (Cass, da n. 589/99 a n. 577/08), il rapporto tra la struttura sanitaria ed il paziente si instaura indipendentemente dal vincolo di dipendenza o meno del medico curante, con la conseguenza che l’Istituto [ clinico] risponde comunque in proprio, ex art. 1228 cc, del fatto del proprio ausiliario, pur non dipendente, in quanto, come contraente, non ha fornito la prova del proprio adempimento.
Considerata l’età del [ paziente] all’epoca del fatto, di circa 21 anni, e la personalizzazione, in ragione delle limitazioni imposte al suo stile di vita, in specie per facile stancabilità e mal di schiena frequente, gli viene attribuita, a titolo di invalidità permanente, quale danno non patrimoniale, la somma di €. 50.000,00, ai valori attuali. 
…”

(segue) VACANZE SOLO DA SOGNARE… È PROPRIO IL CASO DI DIRLO! CONSUMATORE ATTENZIONE: cosa e chi si può nascondere dietro l’offerta di una allettante vacanza premio?

By Casi

Giustizia è stata fatta: sentenza Tribunale di Monza 20.05.2014

Ci eravamo lasciati, ormai 3 anni fa, a gennaio del 2011, all’inizio del giudizio ordinario che i Sig.ri B. con il patrocinio del sottoscritto Legale, convinti delle proprie ragioni, avevano  incardinato nonostante l’esito sfavorevole del reclamo in fase cautelare.
Con la promessa che vi avremmo tenuti aggiornati sugli sviluppi della vicenda.

Ebbene, siamo orgogliosi di far sapere a tutti i lettori interessati all’argomento che pochi giorni fa, precisamente il 20 maggio 2014, è stata pubblicata dal Tribunale di Monza la sentenza che ha concluso il richiamato processo e che ha accolto tutte le domande dei Sig.ri B..

Ricordiamo brevemente che i Sig.ri B. avevano convenuto in giudizio la Società Torinese R. S.r.l. e un noto Istituto finanziario chiedendo venisse, innanzitutto, dichiarata la nullità-  per violazione dell’art. 1346 c.c. – del contratto di compravendita stipulato tra il medesimo Sig. B. e R. s.r.l. avente ad oggetto l’acquisto di un “certificato di associazione” che avrebbe dovuto attribuire al titolare il diritto, alienabile e trasmissibile agli eredi, di godere di una settimana di vacanza in uno dei complessi turistici residenziali facenti parte del circuito turistico che pubblicizzavano.
In considerazione del ritenuto collegamento funzionale con il contratto stipulato con R. s.r.l., gli attori avevano poi chiesto la dichiarazione di inefficacia del contratto di mutuo da entrambi sottoscritto con la Banca, con conseguente condanna dell’istituto di credito a restituire i ratei sin qui pagati dai mutuatari.
Malgrado la ritualità della notifica, la R. srl. preferiva non partecipare al processo, e così,  rimanere contumace, disertando anche l’udienza fissata per l’interrogatorio formale del suo legale rappresentante.
Si costituiva, invece, la Banca chiedendo il rigetto di ogni pretesa avversaria, in quanto infondata.

Ecco qui di seguito, per chi fosse interessato ai dettagli, le motivazioni della decisione del Giudice del Tribunale di Monza, nella quale, per ragioni di privacy, sono stati omessi i nomi dei soggetti coinvolti:

“[…] è documentale e incontestata in causa la circostanza che il Sig. B. abbia sottoscritto con R. s.r.l. [la società del torinese] un contratto di compravendita (doc. l attori), avente ad oggetto “il diritto inalienabile e trasmissibile agli eredi di occupare, godere e utilizzare il modo pieno ed esclusivo, per il periodo di una settimana all’anno una suite/appartamento in uno dei complessi turistici residenziali facenti parte del “New Club Elite”… “Diritto da usufruire” in periodi settimanali ricompresi tra le settimane n. 1 e n. 52 di ogni anno solare” da stabilire annualmente previa comunicazione alla società di gestione, al prezzo e alle condizioni generali allegate, verso corrispettivo di euro [omissis…] (doc. l).
La focalizzazione del vago oggetto contrattuale non è agevolata dal tenore delle condizioni generali ai sensi delle quali è stabilito che “l’Acquirente potrà altresì utilizzare la propria settimana di vacanza con moltissimi resorts, ubicati in tutto il mondo, grazie all’affiliazione del  “New Club Elite Limited” al ’”Circuito …omissis” (art. 6).
Ed ancora, nella parte dedicata alla tipologia di settimane, si rinviene che “i turni di godimento vanno dall’1 gennaio al 31 dicembre. Il sistema di prenotazione prevede la comunicazione della date desiderate al booking che garantirà i periodi prescelti secondo disponibilità” mentre invece, nel resoconto contrattuale, è indicato che il periodo dell’ anno prescelto sarà quello “rosso” senza ulteriori precisazioni. […]
Ciò posto, la domanda attorea va sicuramente accolta per quanto riguarda il contratto stipulato tra il Sig. B. e R. s.r.l., in quanto affetto da nullità ex art. 1346 c.c. La pattuizione rientra nell’ ormai nota categoria di contratti che consentono di acquistare o, comunque, di fruire di periodi di vacanza – generalmente della durata di una settimana – in regime comunemente denominato di multiproprietà. Per la restante parte dell’anno, l’immobile viene goduto – con la medesima modalità – da altre persone, anch’esse proprietarie o fruititrici. Tale figura contrattuale risulta ormai espressamente disciplinata dal Codice del Consumo (D. Lgs. n. 206/2005), agli artt. 69 e segg., dedicati ai contratti per l’acquisizione di un diritto di godimento ripartito di beni immobili. Esaminando dunque tale specifica disciplina, non può non giungersialla conclusione che il contratto in esame sia radicalmente nullo per violazione degli artt. 70 e 71.
Nella pattuizione, infatti:

1) non sono indicati il diritto oggetto del contratto, con specificazione della natura e delle condizioni di esercizio di tale diritto nello Stato in cui è situato l’immobile;
2) non è contenuta la descrizione dell’immobile e la sua ubicazione, posto che il documento contrattuale si limita a menzionare, in modo del tutto vago, “moltissimi resorts ubicati in tutto il mondo” Ciò preclude la valutazione delle condizioni di adempimento;
3) [non sono indicati] i servizi e le strutture comuni;
4) [non sono indicati] il periodo di tempo durante il quale può essere esercitato il diritto oggetto del contratto e la data a partire dalla quale l’acquirente può esercitare tale diritto, non essendo sufficiente limitarsi a richiamare, come nel caso di specie, un fantomatico periodo stagionale “rosso”.

Si comprende che una simile lacunosità non può determinare la semplice annullabilità del contratto o il riconoscimento della facoltà di recesso dell’acquirente – come ritenuto in altre fattispecie simili ma non sovrapponibili alla presente – determinando invece la nullità radicale della pattuizione. Se è vero, infatti, che l’attuale normativa in vigore – e prima di ciò, il D. Lgs n. 427/98 – fa discendere tale effetto unicamente dalla carenza della forma scritta, è parimenti corretto (come già rilevato da condivisibile giurisprudenza di merito, rif. Trib. Firenze 2 aprile 2004), che tale onere formale, essendo il medesimo rivolto ad assicurare all’acquirente la piena consapevolezza del proprio operato, non è rispettato anche quando nella scrittura non siano adoperati termini o frasi intellegibili, o non siano comunque indicati gli elementi ritenuti necessari dal legislatore.
Ed ancora, si concorda con altra pronuncia di merito secondo cui “la fumosità delle informazioni contenute nella scheda contrattuale … determina con effetto assorbente rispetto alle ulteriori allegazioni dell’attore la nullità del contratto concluso, in quanto, in ipotesi di forma – contenuto, all’omessa indicazione va equiparata (pena un ’elusione inaccettabile del dettato normativo) l’indicazione incompleta o incomprensibile” (rif. Trib. Parma sez. I, sent. n. 1046/2012).
Né si può omettere di sottolineare che la Corte di Cassazione, statuendo in un caso di contratto preliminare di compravendita di multiproprietà sita all’interno di campo da golf di cittadina del litorale laziale, per una ben individuata settimana all’anno, aveva sancito la nullità del contratto ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c., affermando la necessità che la pattuizione individuasse i criteri per la determinazione della quota, “nella sua effettiva misura” dovendo in ogni caso “essere contemplati i criteri per la sua concreta determinazione millesimale, atteso che il godimento turnario dello stesso alloggio da parte dei vari comproprietari in diversi periodi dell’anno incide sulla entità delle rispettive quote di pertinenza (non avendo la stessa incidenza sul piano del godimento di un bene sito ad esempio in una località marina averne la sua disponibilità in una settimana compresa nei mesi di luglio od agosto o piuttosto in altri periodi dell’anno) con i suoi inevitabili riflessi in particolare sul relativo prezzo di vendita e sulla entità della partecipazione alle spese comuni; di qui pertanto la conseguenza che la quantificazione della misura della suddetta quota o comunque la previsione negoziale dei criteri in base ai quali determinarla incidono sulla determinatezza o meno dell’oggetto del contratto stesso” (rif. Cass. n. 6352/2010). Nel caso concreto – ove alle lacune rilevate ai punti da sub 1) a sub 3) che precedono – si aggiunge anche l’omessa indicazione delle località in cui sorgerebbero i resorts e della settimana di fruizione, la nullità risulta essere ancora più conclamata.
Si rammenta, infine, che – come già sottolineato – il contratto in esame potrebbe essere nullo anche per violazione di norma imperativa, da individuare proprio nell’art. 71 del Codice del Consumo in quanto volto a realizzare un interesse indisponibile, vale a dire quello del consumatore di conoscere con esattezza ciò che sta acquistando e gli impegni che sta assumendo.
Qualora, peraltro, non si dovesse condividere detta censura di nullità, il contratto in esame risulta, quanto meno, annullabile ai sensi dell’art. 1439 c.c. posto che il Sig. B. è stato vittima di pubblicità ingannevole, idonea ad indurre in errore un consumatore, quale egli indubbiamente è. L’attore, infatti, è stato convinto a recarsi presso l’hotel “omissis” sul presupposto (falso) di dover solo ritirare un omaggio (vacanza premio, mai ricevuta), mentre invece la prospettazione del premio costituiva il mezzo, ingannevole per convincerlo ad assistere alla promozione ed alla vendita di quella forma di multi proprietà. Sussiste quindi nel caso di specie il dolo determinante, causa di annullamento del contratto ex art. 1439, comma 1, c.c.
Va parimenti sottolineata la condotta di R. s.r.l. la quale, oltre ad essere risultata del tutto inadempiente agli obblighi contrattualmente assunti, è rimasta contumace nel presente giudizio, disertando anche l’udienza fissata per l’interrogatorio formale – con ogni conseguenza ex artt. 116 e 232 c.p.c. – di fatto, volatilizzandosi subito dopo l’incasso del denaro del finanziamento. Il che palesemente dimostra l’inesistenza dell’attività contrattuale, prospettata al pubblico con modalità prive di trasparenza, incompatibili con gli obblighi di tutela del consumatore.

Alla luce di quanto sin qui esposto
quindi, il contratto stipulato tra iSig. B. e R. s.r.l. deve essere dichiarato nullo.

Resta da esaminare il vero nodo problematico della vicenda: quali sianocioè, le sorti del contratto di finanziamento stipulato con “omissis” [la Banca], contratto che, secondo la prospettazione degli attori risulterebbe a sua volta travolto dall’ inefficacia della prima pattuizione.
Si rammenta che tra i Sig. B. e l’Istituto di Credito convenuto risulta pacificamente sottoscritto un contratto avente ad oggetto “richiesta di prestito personale e di carta di credito” (doc. 2 attori). La pattuizione – per l’importo complessivo di euro 12. 363,00 di cui euro 11.500,00 a titolo di finanziamento, oltre a commissioni e premio di assicurazione –  è successiva alla stipula del contratto intercorso tra il Sig. B. e R. s.r.l.. Gli attori hanno provato che contestualmente alla ricezione della somma finanziata (…omissis) veniva saldato l’importo di euro 11.500,00 in favore della Società di viaggi  (…omissis), comsi evince dall’estratto conto prodotto agli atti del Tribunale “. Al riguardo, il tenore del documento è esplicito, indicando anche il numero dell’assegno bancario emesso il (…omissis data dell’assegno) dal Sig. B. in favore di R. s.r.l. e poi da questa società girato per l’incasso, come da addebito del (…omissis data dell’incasso).
La Banca convenuta ha negato in causa la sussistenza del collegamento negoziale, in ciò confortata anche dall’esito del reclamo (doc. 3) proposto avverso il provvedimento emesso ex art. 700 c.p.c. dal giudice di prime cure che aveva invece accolto la domanda attorea, volta ad ottenere la sospensione dell’ obbligo di pagamento delle rate mensili del contratto di prestito personale (doc 10 attori).
Ora, è noto che anche la tipologia dei contratti di finanziamento risulta disciplinata per legge, ai sensi degli artt. 121 e segg. del T.U.B. (Capo dedicato al “Credito ai Consumatori”) per cui si può a buon diritto affermare l’avvenuta tipizzazione della categoria del collegamento negoziale nei contratti stipulati con i consumatori. In particolare, l’attuale art. 121 stabilisce che per contratto di credito collegato” si intende, tra l’altro, un contratto di credito finalizzato esclusivamente a finanziare la fornitura di un bene o la prestazione di un servizio specifici se … il finanziatore si avvale del fornitore del bene o del prestatore del servizio per promuovere o concludere il contratto di credito “, come avvenuto nel caso concreto.
D’altra parte, l’attuale normativa rappresenta la fisiologica evoluzione del principio già sancito dall’art. 8 del D. Lgs. n. 472/98 che prevedeva, in caso di recesso del consumatore, la risoluzione di diritto del contratto di finanziamento concesso da un soggetto terzo (società finanziaria) “in base ad un accordo tra questi e il venditore “.
Il contratto stipulato tra il Sig. B. e R. s.r.l. riserva alla società di viaggi “la facoltà di consentire il pagamento del prezzo a mezzo di società finanziari da Lei indicata, con relativi oneri a carico dell’Acquirente” (art. 3). Nel caso di specie, il collegamento negoziale risulta dunque evidente posto che il contratto dispone che il pagamento della quota da parte dell’acquirente dovrà avvenire solo a mezzo di società indicata dalla venditrice.
Né vale ad escludere tale collegamento la circostanza che la causale del contratto di finanziamento risulti essere viaggi” dovendosi ritenere che proprio l’evanescente formula concepita da R. s.r.l. (” … diritto di … godere e utilizzare in modo pieno ed esclusivoper il periodo di una settimana all’announa suite/appartamento in uno dei complessi turistici residenziali facenti parte del “omissis“) abbia indotto la scelta di una simile locuzione, peraltro idonea a descrivere ciò che R. s.r.l. andava millantando.
Se è vero che la disciplina del T.U.B. prevede la caducazione del contratto di credito solo in caso di risoluzione o recesso dal contratto “a monte”, di fornitura del bene o servizio, non pare fuori luogo – in casi come quello in esame – fare ricorso allo strumento dell’analogia per integrare il diritto scritto.
Una simile soluzione pare coerente con la normativa comunitaria di ispirazione e consente poi di evitare un paradosso inaccettabile, vale a dire che il contratto di finanziamento rimanga valido ed efficace malgrado il ricorrere di gravi ipotesi quali la condotta fraudolenta del fornitore. Si rammenta poi che la giurisprudenza di legittimità è giunta a riconoscere l’esistenza del collegamento negoziale laddove sussista un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi. Pertanto, in caso di collegamento funzionale tra più contratti, glstessi restano conseguentemente soggetti alla disciplina propria del rispettivo schema negoziale, mentre la loro interdipendenza produce una regolamentazione unitaria delle vicende relative alla permanenza del vincolo contrattualeper cui essi “simul stabuntsimul cadent” (Cass. n. 7255/2013).
Nella presente fattispecie, non è contestato che gli operatori di R. s.r.l. fossero in possesso della modulistica già predisposta da “omissis” [la Banca] dovendosi ritenere che il contratto di finanziamento “omissis n. finanziamento” sia stato preordinato allo scopo di addivenire al contratto associativo.
Vero è, d’altra parte, che l’incaricata di R. Srl, recatasi presso l’abitazione degli attori, ha fatto sottoscrivere loro il finanziamento come se lei stessa fosse la rappresentante di un’unica parte contrattuale. In coerenza con tale iter, l’art. 9 del contratto “turistico” prevede che il recesso “validamente dato a R. s.r.l. [la Società del Torinese] comporterà altresì lautomatica risoluzione del contratto di finanziamento a questo collegato .
Pare poi comunque configurabile, in capo all’Istituto di credito, l’onere di non rilasciare la propria modulistica senza alcuna preventiva, adeguata, verifica circa la finalità di utilizzo della stessa. Il nesso sussistente tra i due contratti determina quindi che la pronunzia di nullità del contratto d’acquisto dia luogo ai medesimi effetti su quello di credito al consumo stipulato dal consumatore.
Con la conseguenza che la Banca dovrà restituire agli attori le rate di mutuo sin qui corrisposte mentre dovrà essere la società finanziatrice a chiedere la restituzione della somma versata alla venditrice. Le spese di lite seguono la soccombenza […]

P.Q.M.

Il Tribunale, pronunziando sulla domanda proposta con atto di citazione ritualmente notificato da B. nei confronti di R. s.r.l, e di “omissis” Banca, così provvede:

l) dichiara la nullità del contratto stipulato […] tra R. s.r.l. e B.;
2) dichiara la nullità del contratto stipulato il […] tra “omissis” Banca e B.
3) condanna R. s.r.l. a restituire a B. l’importo di euro 400,00 oltre ad interessi legali dalla data del pagamento (…), al saldo effettivo;
4) condanna “omissis” Banca a restituire a B. l’importo di euro 11.137,79 maturato al 30 gennaio 2014, oltre alle rate di mutuo corrisposte dal mutuatario in favore della Banca mutuante successivamente a tale data, con gli interessi dalle date dei singoli pagamenti al saldo effettivo;
5) rigetta ogni residua domande ed eccezione;
6) condanna in solido le parti convenute al pagamento delle spese di lite sostenute dagli attori, […]”.

DUE GENITORI NON VENGONO INFORMATI DAI SANITARI che fra i rischi specifici di un intervento chirurgico…

By Casi

DUE GENITORI NON VENGONO INFORMATI DAI SANITARI che fra i rischi specifici di un intervento chirurgico di ARTRODESI VERTEBRALE STRUMENTATA CON ACCESSO POSTERIORE, cui sarebbe stata sottoposta la figlia minore, vi era quello – seppur raro, ma (poi rivelatosi) – letale di EMBOLIA GASSOSA.
Il TRIBUNALE di BOLOGNA condanna i medici e l’ Ente Ospedaliero per aver, fra l’altro,  negato ai genitori di esprimere validamente il loro CONSENSO.

Cosa sarebbe accaduto se i medici avessero detto la verità, cioè che la bambina poteva morire durante l’intervento???
O meglio, quali sarebbero state le determinazioni dei due genitori se avessero saputo che  l’intervento alla colonna vertebrale che doveva essere praticato era suscettibile di una complicanza nota come “embolia gassosa”, nonché che a tale rischio è associata una mortalità pari – se non superiore – al 50%???
Non v’è chi non convenga sul fatto che mai i genitori avrebbero prestato il consenso a tali condizioni.
Per dimostrarlo è, infatti, sufficiente far ricorso al comune buon senso.
Portare un busto sarebbe stato di certo una “scocciatura” e un rimedio non risolutivo, motivo per cui, evidentemente, i Consulenti nominati dal Tribunale hanno qualificato l’intervento di cui è causa come “necessario e consigliabile”, ma di fronte alla possibilità di morire, in così tenera età, sarebbe stata, sicuramente, ben poca cosa.
Purtroppo, però, i sanitari – come è risultato per tabulas (dalla cartella clinica; dalla Consulenza svolta in sede penale; dalla CTU redatta in sede civile) e dalla viva voce dei testimoni – hanno sottaciuto l’esistenza del ridetto rischio e, conseguentemente, hanno inibito ai genitori della minore di scegliere consapevolmente se affrontare o meno l’intervento chirurgico; se farlo in altre strutture con terapie alternative; se farlo in quel momento o farlo dopo o non farlo.

S è insistito sul fatto che il medico deve informare il paziente, tra le altre cose, anche sui rischi prevedibili dell’intervento inclusi quelli con scarsa probabilità statistica di verificazione.  Per giurisprudenza costante, infatti, assume rilevanza, in proposito, l’importanza degli interessi e dei beni in gioco, non potendosi consentire, tuttavia, che, in forza di un mero calcolo statistico,  il paziente non venga edotto di rischi, anche ridotti, che incidano gravemente sulle sue condizioni fisiche o, addirittura, sul bene supremo della vita.

Nel corso del processo i Consulenti nominati dall’Ufficio, pur precisando che “Proprio perché trattasi di gravissima complicanza potenzialmente mortale, secondo taluni l’informativa circa l’embolia gassosa avrebbe dovuto essere data”, hanno rimesso all’Ill.mo Giudice la decisione se fosse necessario o meno fornire tale tipo di informazione, essendo l’embolia gassosa una complicanza specifica, presente nelle statistiche e in letteratura, ma rara.

Peraltro, non solo questo gravissimo rischio era stato sottaciuto, nel caso in esame, ma non sono state neppure indicate le possibili terapie o interventi alternativi – come ad esempio, la tecnica dei potenziali evocati alternativa al test del risveglio intraoperatorio – che, invece, rappresentano un passaggio essenziale dell’informativa al paziente, e che, nel caso di specie, sarebbero state importanti, visto che il test del risveglio intraoperatorio utilizzato nel caso in esame , in generale, può favorire l’embolia a causa della pressione negativa determinata dal respiro spontaneo.

Sulla base di queste argomentazioni, l’avv. Luigi Lucente ha chiesto che il Tribunale condannasse i sanitari e l’Ente per non  avere, fra le altre cose, rispettato il dovere di informazione cui erano tenuti.

Il Tribunale di Bologna con sentenza n.1564/2013  depositata il 20 Maggio 2013 ha accolto la domanda motivando la decisione sul punto come di seguito. Il consenso è “…posto a tutela della libertà di autodeterminazione del paziente, intesa come espressione della libertà personale tutelata dall’art. 13 della Costituzione, con la conseguenza che il dissenso cosciente e responsabile del paziente costituisce limite invalicabile per l’attività del medico.[…]
… una corretta informazione deve servire al paziente per operare una consapevole scelta in ordine al bilanciamento tra vantaggi e rischi, sin anche alla possibile inutilità dell’intervento stesso, in modo tale da determinarsi coscientemente e volontariamente su ciò che potrà accadergli.[…]
… il necessario consenso del paziente all’esecuzione della prestazione terapeutica costituisce un’obbligazione il cui adempimento deve essere provato dalla parte che l’altra affermi inadempiente e, dunque, dal medico a fronte dell’allegazione di inadempimento da parte del paziente.[…] Nel caso di specie le risultanze delle prove orali svolte su tale specifico aspetto e l’esame della documentazione prodotta, anche secondo l’avviso dei CTU, induce a ritenere che il consenso informato predisposto dai sanitari e sottoscritto dall’esercente la potestà genitoriale risulta essere generico ed in particolare non descrittivo della possibile, sia pur molto rara, complicanza embolica di fatto intervenuta, non contenendo l’indicazione di possibili terapie o interventi alternativi, indicando soltanto “ i rischi prevedibili dell’intervento chirurgico proposto, degli eventuali danni ( temporanei o permanenti) per la salute e per la vita”. In particolare il teste Dott.ssa …, che ha acquisito il consenso al trattamento anestesiologico, ha riferito che non sia stato prospettato né il rischio di morte, né di embolia … né l’esame della problematica circa il grado di necessari età dell’intervento in rapporto ai relativi rischi, né prospettati i particolari rischi connessi alla procedura di risveglio intraoperatorio, pur essendo stata spiegata tale tecnica, né l’alternativa della tecnica dei potenziali evocati, già all’epoca utilizzati. Anche l’infermiere professionale presente al colloquio … ha negato che si sia parlato di rischio di embolia, di rischi connessi all’anestesia, di tecniche alternative per la valutazione sensoriale intraoperatoria.
Da ciò consegue che ai genitori … è stato negato il diritto di esprimere validamente il loro consenso, atteso che verosimilmente gli stessi non lo avrebbero prestato a fronte di un rischio letale in cui poteva incorrere la loro unica figlia.”

UN CENTRO ESTETICO, presentandovi un “PACCHETTO BENESSERE E DIMAGRIMENTO” vi strappa una firma? Per il Giudice di Pace di Milano: il CONTRATTO NON E’ PERFEZIONATO

By Casi
Questo è quanto ha statuito la sentenza n. 7455/2011 del Giudice di Pace di Milano, Sezione VI Civile, nella persona della Dott.ssa Teti, che, in accoglimento della tesi difensiva degli Avv.ti Luigi Lucente e Simona Tesolin, ha precisato che non basta intitolare una carta “contratto” e raccogliere una firma per considerarlo tale, essendo necessario verificare, da un lato, l’effettiva sussistenza dei suoi presupposti essenziali, e, dall’altro, quale fosse la reale intenzione dei soggetti coinvolti al momento della firma, in armonia con un insegnamento consolidato della giurisprudenza per cui “il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo e alla luce dell’esperita attività istruttoria”.
Nel caso di specie, alla Sig.ra G., era stato notificato un decreto ingiuntivo da parte di un Centro Estetico che le intimava di pagare dei trattamenti per più di € 4.000,00, dovuti, a dire del ricorrente, in virtù di un contratto sottoscritto in occasione di una visita della signora presso la loro struttura.
La Sig.ra G., tuttavia, ci ha esposto una realtà dei fatti ben diversa, e cioè che l’unico motivo per cui si era recata nel ridetto Centro Estetico era per avere delle informazioni, per ottenere le quali era stata sottoposta ad un’analisi della figura (pubblicizzata come assolutamente gratuita), necessaria per avere un preventivo di spesa.
Ha aggiunto, altresì, che l’addetta al Centro Estetico aveva, quindi, redatto un possibile piano di trattamenti in più sedute, indicando sia il preventivo di spesa pari a € 3.230,00 sia le tempistiche di successo, inducendola a sottoscrivere quella carta, a suo dire, ai fini della privacy, e rassicurandola sul fatto che si trattava di una firma assolutamente priva di impegno.
Questi difensori, pertanto, con atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, hanno incardinato innanzi al Giudice di Pace di Milano, il procedimento che ha dato origine alla sentenza di cui si tratta perché venisse accertata l’infondatezza della pretesa avanzata dal Centro Estetico.
In particolare, la tesi difensiva seguita dagli Avv.ti Lucente e Tesolin è stata che, in occasione dell’incontro del 09 maggio 2008, la Sig. G. si era limitata a chiedere al Centro Estetico delle informazioni e un preventivo di spesa relativamente ai trattamenti di dimagrimento offerti e, in tale circostanza, venne sottoposta ad un’analisi della propria figura ASSOLUTAMENTE GRATUITA E PRIVA DI IMPEGNO finalizzata a dare una risposta alle domande della Sig.ra G. che, tuttavia, non voleva iniziare quel percorso in quel preciso momento storico né poteva farlo, dal momento che, trovandosi in infortunio, non era in condizioni di salute tali da potersi sottoporre alle prestazioni offerte dal Centro Estetico, che, tra l’altro, prevedevano almeno 60 sedute di ginnastica e, quindi, uno sforzo fisico che la signora non era in grado di affrontare.
Tra la Sig.ra G. e il Centro Estetico non si era, pertanto, perfezionato alcun contratto, come, peraltro, emergeva già per tabulas, proprio dal “modulo di iscrizione”, che controparte aveva assunto a fondamento delle proprie pretese.
Se era pur vero che in tale documento, precisamente alla clausola n. 2, si legge la parola “contratto”, altrettanto vero era che non basta un nomen iuris per giustificare la sussistenza di un istituto, ma serve che ne ricorrano i presupposti essenziali, due dei quali, peraltro, nel caso di specie, erano richiamati da questa stessa disposizione, e cioè: il “piano di trattamenti”, nonché le “condizioni di pagamento”, aspetti entrambi che – MAI sono stati discussi e/o concordati fra le parti in causa.
Se né il piano di trattamenti né le condizioni di pagamento erano state concordate, la Cliente non poteva impegnarsi ad osservarle.
Senza contare che, a parte questi dettagli espressamente richiamati dalla clausola n. 2 che controparte stessa invocava, il modulo in questione difettava anche di ulteriori elementi essenziali per potersi considerare un accordo perfezionato, e cioè:
 il calendario puntuale delle sedute;
 lo studio di un piano alimentare personalizzato;
 e, soprattutto, la visita medica preventiva.
Si è argomentato, inoltre, sul carattere generico, prestampato e redatto UNILATERLMENTE dal Centro Estetico in migliaia e migliaia di copie, del “modulo di iscrizione” che non avrebbe potuto essere assunto nel rispetto dell’art. 1362 c.c. e della giurisprudenza in materia (Cass. Civ. 09 giugno 2005 n. 12120), quale mezzo ermeneutico più idoneo per accertare la comune intenzione delle parti.
Inoltre, si è sottolineato che l’approvazione scritta da parte della Sig.ra G. delle clausole (pesantemente vessatorie) 1-13 del documento, fosse, in concreto, priva di effetti.
Le stesse, infatti, sono richiamate cumulativamente con tutte le altre e, pertanto, non soddisfano il requisito della specificità richiesto dall’art. 1341 c.c. (anch’esso non riportato sul documento) per la loro validità (06/4452, in G. Cian e A. Trabucchi, Commentario Breve al Codice Civile, VIII edizione, CEDAM, art. 1341 c.c., pag. 1511).
Non solo!
Se si leggeva con attenzione il contenuto della seconda parte del modulo, quello per intenderci dove si chiede la specifica approvazione per iscritto, saltava immediatamente agli occhi la profonda differenza rispetto ai contenuti della prima parte.
Riassumendo, nessun dubbio -per i Difensori della Sig.ra G.- che doveva essere profondamente ridimensionata la portata del modulo tanto sbandierato da controparte che, se qualche valenza aveva, era solo quella di un primo passo in una trattava, ovvero, come potremmo dire facendo nostre le parole di uno dei testimoni ascoltati, di una semplice “richiesta di informazioni”.
I testi ascoltati nel corso del processo hanno, altresì, fugato ogni dubbio in merito al fatto che la Sig.ra G. sia stata indotta a firmare delle carte con pretestuose quanto false lusinghe e “trucchetti”.
Si legge, infatti, e fra l’altro nelle dichiarazioni testimoniali: “Io non ho visto cosa ha firmato la mia amica, ma ho sentito che veniva rassicurata che la sua firma era priva di impegno”; ADR: “[…] la mia amica si è affidata alle dichiarazioni dell’addetta al Centro Estetico che la rassicurava che si trattava solo di documenti informativi e privi di impegno”.
Anzi, in proposito, ci si permette di aprire una brevissima parentesi, precisando un ulteriore aspetto, e cioè che, tra l’altro, nel “modulo di iscrizione” si legge che la validità dei trattamenti è di un anno dal primo effettuato, in tal modo, facendo dipendere l’efficacia del contratto – sempre che di contratto volesse parlarsi – dalla decisione dell’utilizzatore finale, ovvero dalla prestazione, almeno, del primo trattamento.
Tuttavia, nel caso di specie, la ridetta condizione non si è mai verificata, in quanto la Sig.ra G. non ha mai usufruito né prenotato – non potendo – alcun trattamento (come, peraltro, si evince anche dal piano di lavoro giornaliero prodotto da controparte stessa).
Va da sé che al verificarsi di tale condizione era eventualmente subordinato anche il versamento del compenso (e, quindi, l’esigibilità di esso).
Il Giudice di Milano con la sentenza in oggetto ha così statuito: “… ritiene fondata la domanda dell’opponente, in quanto il decreto ingiuntivo n. 37816/2009 deve essere revocato essendo la pretesa in esso azionata infondata in fatto e in diritto, non essendosi perfezionato il contratto posto alla base dell’ingiunzione e risultando, inoltre, l’assoluta incongruità della somma ingiunta in relazione all’accertata mancata fruizione dei trattamenti da parte della opponente.
Esaminando il preteso contratto inter partes, il Giudice rileva ictu oculi che il MODULO DI ISCRIZIONE, rappresentato da un modulo prestampato ed in parte compilato, non è un contratto definitivo, come deduce parte opposta, ma è una convenzione preliminare contenente un preventivo, da considerarsi alla stregua di una trattativa; infatti non è stato versato alcun acconto, non sono state determinate alcune clausole essenziali, in particolare le modalità del pagamento e/o dei pagamenti; non risulta, inoltre, acquisito il certificato medico, indispensabile al fine di valutare la compatibilità della signora G. a sottoporsi a un pesante programma quale prospettato nel modulo; il Modulo in questione va interpretato senza alcun dubbio alla luce della promessa di check-up iniziale gratuito da parte del Centro Estetico visionabile sul sito dell’opposta.
La clausola n. 2 dello stesso modulo è chiara: “Il cliente si impegna a corrispondere per l’intero il prezzo pattuito nel suddetto prospetto e secondo le condizioni stabilite”; nella fattispecie mancano proprio le condizioni stabilite e il relativo spazio è in bianco; non solo, la clausola n. 8 stabilisce: “I trattamenti… hanno validità di anni uno dal primo effettuato”: nel nostro caso la cliente non ha usufruito di alcun trattamento, come dichiarato dalla stesa madre della titolare”…

VACANZE SOLO DA SOGNARE… È PROPRIO IL CASO DI DIRLO! CONSUMATORE ATTENZIONE: cosa e chi si può nascondere dietro l’offerta di una allettante vacanza premio?

By Casi
Con ricorso di urgenza (ex art. 700 c.p.c) depositato presso un Tribunale lombardo nel mese di gennaio 2011, due Clienti, i Sig.ri B., con il patrocinio dell’avv. Luigi Lucente, chiedevano che venisse autorizzata la sospensione dei pagamenti rateali mensili relativi al contratto di finanziamento concluso con un noto Istituto di Credito.
Tale scelta di incardinare un procedimento cautelare in attesa del giudizio ordinario – in ogni caso necessario – veniva dettata dall’esigenza di voler evitare ai Sig.ri B. di dover pagare l’intero importo del mutuo durante il periodo occorrente per la definizione di una causa di merito e, quindi, di evitare che il pregiudizio in danno dei consumatori venisse aggravato dai tempi notoriamente lunghi della Giustizia.
A sostegno della propria domanda, i ricorrenti riferivano di essere stati contattati, nel luglio del 2009, con la fraudolenta prospettazione della vincita di un viaggio gratuito a scopo promozionale dai rappresentanti di una Società del torinese, che li invitava, per il ritiro, presso un lussuoso hotel alle porte di Milano, dove, poi, in realtà, con l’allettante promessa e rassicurazione (verbale) di vacanze magnifiche e sottocosto in ogni parte del mondo – le cui immagini riempivano l’intera sala dell’albergo – veniva loro subdolamente proposto di sottoscrivere un “contratto  di compravendita”, avente ad oggetto l’acquisto di un “certificato di associazione” che avrebbe dovuto attribuire al titolare il diritto, alienabile e trasmissibile agli eredi, di godere di una settimana di vacanza in uno dei complessi turistici residenziali facenti parte del circuito turistico che pubblicizzavano.
Il tutto fino all’anno 2053 e a fronte di un corrispettivo di € 11.900,00, importo che i Clienti effettivamente pagavano, in parte mediante un acconto  – corrisposto in palese violazione dell’art. dell’art. 74 del Codice dei Consumatori (già art. 6  Decreto Legislativo 9 novembre 1998 n. 427) – per il resto, mediante contrazione di un prestito con un conosciuto Istituto di Credito italiano, indicato proprio dalla società torinese, che forniva ai Clienti i moduli per la richiesta, raccoglieva le sottoscrizioni e li consegnava alla Banca.
Dopo aver percepito il compenso, tuttavia, tale società svaniva progressivamente nel nulla fino alla completa irreperibilità e, con essa, i sogni di splendide vacanze (di cui, a distanza di più di un anno, non erano MAI riusciti ad usufruire) e i soldi dei Sig.ri B..
I malcapitati si rendevano, quindi, conto del raggiro perpetrato in loro danno e, perciò, sporgevano formale denuncia querela presso le competenti Autorità, affinché venisse avviato un procedimento contro l’Amministratore della Società torinese (attualmente, ancora in fase di indagine), ma, intanto, avevano iniziato a pagare delle somme e si erano impegnati ad onorare le rate mensili del finanziamento.
Nell’atto introduttivo del richiamato procedimento di urgenza, si argomentava sul fatto che l’esame della documentazione offerta in produzione e, in particolare, del contratto di compravendita e dei documenti allegati allo stesso, rivelava l’assoluta nullità dell’accordo stipulato fra la Società torinese e i Sig.ri B., poiché privo del requisito essenziale previsto dall’art. 1346 del Codice Civile per cui l’oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile
Nell’intestazione, infatti, si parlava di un “Contratto di compravendita”, il cui oggetto sarebbe stato rappresentato da un certificato di associazione che avrebbe attribuito al titolare “il diritto alienabile e trasmissibile agli eredi di occupare, godere e utilizzare in modo pieno ed esclusivo, per il periodo di una settimana all’anno una suite/appartamento in uno dei complessi turistici residenziali facenti parte del “New Club Elite” in periodi settimanali ricompresi fra le settimane n. 1 e n. 52 di ogni anno solare da stabilirsi annualmente previa comunicazione alla società di gestione al prezzo e alle condizioni generali e particolari qui di seguito indicate”.
Non era, tuttavia, dato capire, neppure con la lettura delle altre clausole contrattuali, di che tipo di associazione si trattasse né quale fosse l’effettiva collocazione temporale del periodo di godimento dell’immobile/i, anch’esso/i a sua/loro volta del tutto imprecisato/i.
Ebbene, in proposito, è doveroso rilevare che la giurisprudenza, già chiamata a pronunciarsi su altre vicende analoghe a quelle dei nostri Clienti (fra le altre, Tribunale di Firenze, 02.04.2004; Tribunale di Parma sent. N. 171/2009; Tribunale Ordinario di Milano Sezione Distaccata di Rho 457/2008; Tribunale di Parma 443/2010; tribunale di Parma n. 652/2009), è concorde nel ritenere che questi spunti ed espressioni “nebulose” (per usare un eufemismo), non solo non siano sufficienti ad integrare il requisito di cui al’art. 1346 del Codice Civile, ma, anzi, determinino proprio l’effetto contrario, e cioè quello di aumentare l’incertezza circa l’oggetto del contratto, dal momento che non è affatto chiaro cosa l’acquirente abbia comprato.
Pur ritenendo assorbente quanto detto circa tale profilo di nullità, si rilevava, altresì, come l’accordo de quo non soddisfasse neppure i requisiti indicati dall’art. 71 (già art. 3 del Decreto Legislativo 98/427) del Codice dei Consumatori: a solo titolo esemplificativo, nel contratto, infatti, non vi era traccia del diritto oggetto del contratto (art. 71, comma II e art. 70, I comma, lett. a); delle informazioni relative ai singoli complessi turistici (art. 71 e art. 70, II comma); del periodo di tempo destinato al godimento del diritto (art. 71).
E se è ben vero che, espressamente, tale normativa prevede la nullità solo per l’ipotesi di carenza di forma scritta, altrettanto vero è che tale onere formale, essendo il medesimo rivolto ad assicurare all’acquirente la piena consapevolezza del proprio operato, non è rispettato anche quando nella scrittura – come nel caso di specie – non sono adoperati termini o frasi intellegibili e, comunque, indicati gli elementi ritenuti necessari dal Legislatore (Tribunale di Firenze 02.04.2004).
Senza contare che vi è un’altra ragione per ritenere nullo il contratto quando lo stesso non contiene le indicazioni prescritte dal menzionato art. 71.
Detta norma, infatti, deve considerarsi imperativa, essendo la stessa diretta a realizzare un interesse indisponibile, cioè quello del consumatore di conoscere con esattezza ciò che sta comprando  e gli impegni che sta assumendo.
Di conseguenza, la nullità, in ipotesi come quella di cui si trattava di inosservanza della ridetta disposizione, discendeva dall’art. 1418 del Codice Civile.
Ancora…
Nella vicenda de qua, era doveroso tenere in debita considerazione due ulteriori aspetti:
 Innanzitutto, il fatto che vi era, nella fattispecie di cui è causa, anche una ragione per annullare il contratto a norma dell’art. 1439 del Codice Civile: i Clienti, infatti, erano stati attirati dalla Società torinese con il pretesto – falso! – di essere stati prescelti per trascorrere una vacanza gratuita di una settimana.
Una condotta già perpetrata a danno di altri consumatori e segnalata dalla Confcosumatori all’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, che, con riferimento alla denuncia inoltrata nei confronti della “V. & V. Viaggi e Vacanze S.r.l.”, in data 31.05.2001, ha affermato: “I messaggi telefonici in esame, alla luce delle dichiarazioni espresse dal segnalante, inducono il destinatario a ritenere di  aver ricevuto in regalo una vacanza senza alcun tipo di onere o condizione annessa alla fruizione della stessa. I messaggi lasciano, infatti, intendere che l’assegnatario contattato telefonicamente, recandosi in una data concordata nel luogo indicato dall’operatore, potrà ritirare omaggio promesso”.
I fatti, invece, allora come nel caso qui narrato, dimostravano che la diretta e reale finalità dell’iniziativa di tali società, che è rappresentata dalla promozione della vendita di quote di multiproprietà, non risulta esplicitata dal messaggio e, quindi, è in contrasto con la normativa attualmente in vigore in materia di “pubblicità ingannevole”.
Il testo della telefonata, infatti, non riportava alcun riferimento a qualsivoglia proposta contrattuale in realtà formulata al Cliente al momento dell’incontro per il ritiro dell’omaggio.
Si era quindi, evidentemente, in presenza di una c.d. “pubblicità ingannevole”, come tale idonea ad indurre in errore un consumatore, convinto a recarsi all’appuntamento – dove, poi, ha firmato il contratto – perché credeva di andar lì solo per ritirare un premio, mentre, invece, si trattava del mezzo, fraudolento, per convincerlo ad assistere alla promozione e alla vendita di una forma di multiproprietà (c.d. Timeshare): donde la ricorrenza di un tipico caso di “dolo determinante”, causa di annullamento del contratto ex art. 1439 c.c.
 In secondo luogo, la Società torinese, nonostante fosse stata più volte sollecitata dai Clienti al fine di ottenere quanto promesso, in qualità di venditrice e di diretta referente ex art. 70 lettera l) del Codice dei Consumatori, si era completamente sottratta anche all’unico obbligo contrattuale che chiaramente si era assunta, e cioè quello di consegnare quel fantomatico pezzo di carta qualificato “Certificato di Associazione intestato all’Acquirente” di cui si è già ampiamente parlato.
Di conseguenza, persino nella denegata e non creduta ipotesi in cui si fosse voluto riconoscere una qualche validità all’accordo di cui si tratta, in ogni caso, lo stesso, in considerazione dello spirare del termine essenziale assegnato dai ricorrenti alla società torinese, si era risolto di diritto e, quindi, era privo di effetti.
Riassumendo, quindi, sotto qualsiasi profilo giuridico si considerasse la fattispecie concreta, il risultato era sempre l’inefficacia dell’accordo stipulato fra la Società torinese e i Clienti (fumus boni iuris).
Non vi era, poi, dubbio che tale effetto travolgesse anche il contratto di finanziamento dal momento che, nel caso concreto, era evidente il collegamento funzionale fra i due accordi “concepiti e voluti come avvinti teleologicamente da un nesso di reciproca interdipendenza per cui le vicende dell’uno debbano ripercuotersi sull’altro, condizionandone la validità ed efficacia” (Cass. 27 marzo 2007, n. 7424; Cfr. in tal senso anche Tribunale di Parma 171/2009) e che “in tal caso grava sul venditore, che ha ricevuto la somma mutuata, l’obbligo di restituirla al mutuante, non già sul mutuatario” (App. Milano, 13 ottobre 2004 in Giur. Merito 2005, 12 2618).
Di conseguenza i consumatori avevano diritto, per effetto dell’inefficacia, di ottenere la restituzione di quanto pagato alla finanziaria e, in sede tutelare, di ottenere l’autorizzazione a sospendere i pagamenti “a venire” per limitare il già grave pregiudizio patito (periculum in mora).
L’unica controparte che si costituiva in giudizio era proprio l’Istituto di credito, il quale, nel proprio atto, si difendeva con un unico argomento, che, qui di seguito si trascrive:
I due contratti richiamati in narrativa non hanno alcun legame tra di loro e, ad un attento esame, risultano ben distinti ed autonomi, sia sotto il profilo formale che quello sostanziale. 
Tali contratti disciplinano invero fattispecie del tutto diverse.
In particolare quello di “prestito personale e Carta di Credito” stipulato con [ l’Istituto di credito]  non contiene la benché minima indicazione della causa della richiesta del prestito, nel senso che il cliente avrebbe potuto utilizzare l’importo ricevuto per qualsiasi finalità. […] 
Peraltro, quand’anche controparte dimostrasse di aver utilizzato le somme effettivamente per il saldo della [Società torinese], nulla cambierebbe atteso che i negozi giuridici sono del tutto distinti ed autonomi e l’ipotetico vizio di uno non inficia l’efficacia del’altro”.
A conclusione del processo il Giudice ha così motivato il provvedimento di accoglimento del ricorso dei Clienti:
Ferma la totale genericità del contratto nell’individuazione dei beni immobili oggetto del diritto di godimento derivante dal certificato di associazione e la conseguente radicale nullità dello stesso ex artt. 70-71 del Codice del Consumo, dalle missive prodotte dai ricorrenti e dall’atto di denuncia-querela presentato in data 15.12.2010 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Monza emerge che la [Società torinese] si è resa totalmente inadempiente agli obblighi contrattuali assunti con il contratto di compravendita, pacificamente riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 69 D. lgs. N. 205/2006 (c.d. multiproprietà).
Le domande di nullità e risoluzione prospettate dai ricorrenti sono pertanto senz’altro supportate dal fumus boni iuris, emergendo, per tabulas, che la [Società torinese] dopo aver incamerato il corrispettivo, si è resa irreperibile, abbandonando la propria sede legale, senza  comunicare in Camera di Commercio la nuova sede e ha totalmente omesso di riscontrare le richieste di adempimento dei [Clienti].
Totalmente infondate appaiono le contestazioni sollevate dalla Banca in merito all’autonomia dei due rapporti contrattuali (vendita-finanziamento).
Dalla documentazione contrattuale in atti emerge chiaramente che il prestito dalla stessa concesso ai ricorrenti era finalizzato all’acquisto da parte degli stessi del prodotto “turistico” della [Società torinese].
Il collegamento funzionale tra i due rapporti è espressamente indicato sia nelle condizioni generali del contratto di compravendita, nelle quali si prevede la facoltà della [Società torinese] di concedere al compratore (consumatore) di pagare il prezzo tramite società finanziaria dalla medesima indicata (art. 3), che nel modulo di richiesta di prestito, riportante quale causale finanziamento “VIAGGI”.
E’ quindi evidente che il prestito per cui è causa è stato erogato dalla Banca in forza di un accordo esistente tra la stessa e la parte venditrice [Società torinese], ipotesi per la quale il Codice del Consumo, con riferimento al prodotto qui esaminato, contempla una specifica ipotesi di collegamento contrattuale (vs. art. 77 D. lgs. 205/2006).
Quanto all’incidenza dell’inadempimento del contratto principale sulle sorti del collegato contratto di finanziamento, la fattispecie risulta attualmente disciplinata dall’art. 125 – quinquies del T.U.B., introdotto dal D. lgs. N. 141/2010 in attuazione della Direttiva CE 2008/48, a mente del quale “nei contratti di credito collegati, in caso di inadempimento da parte del fornitore dei beni o dei servizi, il consumatore, dopo aver inutilmente effettuato la costituzione in mora del fornitore, ha diritto alla risoluzione del contratto di credito, se con  riferimento al contratto di fornitura di beni o servizi ricorrono le condizioni di cui all’art. 1455 c.c. . La risoluzione del contratto di credito non comporta l’obbligo del consumatore di rimborsare al finanziatore l’importo che sia stato già versato al fornitore dei beni o dei servizi. Il finanziatore ha il diritto di ripetere detto importo nei confronti del fornitore stesso”.
Detta disposizione, costituendo l’attuazione di una direttiva comunitaria già vigente all’epoca della conclusionale del contratto per cui è causa, deve ritenersi applicabile anche all’odierna controversia.
Ciò non tanto in ragione della sua diretta efficacia retroattiva, quanto piuttosto in forza del principio generale per cui il giudice interno è tenuto ad interpretare la normativa in senso conforme al diritto comunitario, disapplicandola in caso di riscontrata difformità e riconoscendo allo stesso prevalenza.
Va al riguardo rilevato che la pregressa previsione normativa (art. 42 del codice del Consumo), abrogata dal d. lgs. 141/2010, sanciva la responsabilità sussidiaria del finanziatore in caso d’inadempimento del fornitore, solo in presenza di un accordo di esclusiva, lasciando così ampi margini per l’elusione delle sue finalità di tutela.
La nuova direttiva comunitaria già dal 2008 aveva rivisto il relativo regime, generalizzando la corresponsabilità del finanziatore in tutti i casi di credito al consumo collegati a contratti di fornitura in base agli accordi assunti tra finanziatore e fornitore, sicché a sopravvenuta normativa interna non ha fatto che dare attuazione a detto principio.
Va in ogni caso rilevato che anche a voler escludere che tale novellata disciplina trovi applicazione nel caso di specie, in difetto di specifiche allegazioni di segno contrario, deve presumersi che la Banca, essendo stata indicata dalla stessa [Società torinese], avesse in corso con la stessa accordi in esclusiva per la concessione di credito relativa ai prodotti dalla stessa commercializzati.
In accoglimento del ricorso, il tribunale ritiene pertanto di autorizzare i ricorrenti a sospendere con effetto immediato il pagamento dei ratei di rimborso del prestito ancora in scadenza”.
Naturalmente, l’Istituto di Credito non ha accolto di buon grado  tale decisione e, così, ha proposto reclamo ai sensi di legge contestando la sussistenza del collegamento funzionale accertato dal primo Giudice, reclamo che il Tribunale in composizione collegiale – onestamente davvero contro ogni nostra previsione – ha accolto.
Molti lettori si potranno chiedere che senso può avere scrivere di un caso che, almeno fino a questo momento, non ha avuto un epilogo favorevole per i Ns. Clienti.
Orbene, la ragione è molto semplice e si spiega con la necessità, che è sempre stata il principio ispiratore di questo studio legale e alimenta la passione di chi pratica questo mestiere, di raccontare sempre la nostra verità dei fatti, continuando a combattere per difenderla, anche quando le “circostanze”cercano di piegarci.
Perché anche chi non si occupa di diritto, e vive le aule di Tribunale solo attraverso i mass media, conosca anche questi scorci di vita comune.
Proprio  in virtù di tale rivendicata trasparenza si ritiene, quindi, doveroso, riportare le motivazioni che il Tribunale ha addotto per concludere che i consumatori, pur avendo ragione circa l’effettiva nullità e/o risoluzione del contratto con la Società di Viaggi, dovranno continuare  a pagare “a vuoto” la Banca.
Si legge, in proposito, nel provvedimento di cui si tratta: “[…] premettendosi ulteriormente che nessuna contestazione è mai sorta fra le parti in relazione all’effettiva fondatezza degli assunti (nullità e/o risoluzione) avanzati dagli odierni reclamati nei riguardi del contratto c.d. principale, ossia quello stipulato con (OMISSIS la Società di Viaggi) ciò che non convince è , a ben vedere, l’effettiva sussistenza del collegamento funzionale tra tale ultimo contratto e quello stipulato dai consumatori con l’istituto di credito reclamante […] . In sostanza se, da un lato, può legittimamente sostenersi che il legislatore abbia legittimamente considerato il ricorso al credito da parte del consumatore per l’acquisto di beni un’ipotesi tipica di collegamento negoziale, attribuendo alla parte debole tutelata un effetto non solo caducatorio, ma anche recuperatorio immediato e diretto nei confronti del terzo, dall’altro non può del pari non rilevarsi che, ai fini dell’effettiva sussistenza del collegamento fra i due contratti, non è certamente sufficiente, come ritenuto dal primo giudicante, la semplice facoltà della controparte espressamente prevista in contratto di scegliere la società finanziaria ovvero l’indicazione, nella causale del finanziamento, di una generica – quanto indefinita – parola “viaggi”. Indici rivelatori a tal fine avrebbero semmai essere individuati, a mero titolo esemplificativo, nella contestuale stipulazione, espressamente indicata nel contratto, del relativo finanziamento, all’uopo utilizzando moduli già in possesso del venditore, ovvero nell’espressa – ma la contempo precisa – indicazione nella proposta di finanziamento, del contratto di acquisto sopra indicato (“contratto di compravendita  del certificato di associazione rilasciato dall’Entità Fiduciaria New Club Elite Limited”) o, quantomeno di una terminologia più specificatamente idoena ad individuare il contratto in oggetto. […] In definitiva, la semplice indicazione del termine “viaggi” nella causale di finanziamento oltremodo generica, non consente certamente di associare, con ragionevole certezza, la concessione del finanziamento da parte di (OMISSIS Istituto di credito) al contratto concluso con (OMISSIS Società di Viaggi) piuttosto che ad un qualsiasi altro contratto stipulato con terzi, di modo che tra i due non può ritenersi sussistente alcun serio collegamento negoziale con l’ulteriore conseguenza che gli eventuali vizi presenti nel secondo non possono automaticamente estendersi al primo. Pertanto l’ordinanza del primo giudicante deve essere integralmente revocata.
È, tuttavia, doveroso precisare, per amor di completezza, che la causale di finanziamento sopra richiamata è stata inserita proprio dalla Società torinese, o, forse, chi lo sa, dalla Banca, ma, certamente, non dai Sig.ri B. e, ancora, che, in ogni caso, questa difesa aveva dedotto ben più di quanto l’Ecc.mo Collegio riferisce ed, anzi, proprio ciò che quest’ultimo suggerisce quali “indici rivelatori” di un collegamento fra il contratto della Società torinese ed il contratto di mutuo concesso dalla Banca, e cioè:
 la contestualità del contratto di compravendita e di mutuo;
 il fatto che i dati indicati alla voce “definizione di pagamento” della bolletta di consegna della Società di viaggi, indicavano i dettagli del finanziamento, e, così, l’importo erogato di € 11.500,00, nonché il numero di 84 ratei di mutuo;
 che tali dati corrispondevano esattamente a quelli della richiesta di finanziamento inoltrato all’Istituto di credito;
 che, contestualmente, alla ricezione della somma finanziata (10.08.2009) veniva saldato l’importo di € 11.500,00 in favore della Società di viaggi (12.08.2009), come si evince dall’estratto conto prodotto agli atti del Tribunale;
 che nella richiesta di mutuo diretta alla Banca e di cui sono in possesso i consumatori mancava qualsivoglia timbro e/o firma dell’Istituto di credito, che attestasse un rapporto diretto fra gli odierni reclamati e la banca;
 e, non da ultimo, che la modalità di pagamento concessa dalla Società di Viaggi ai Consumatori è stata effettivamente quella di un finanziamento (Cfr. Contratto di puntuazione del 25.07.2009), che non può che essere stato erogato da un Ente indicato dalla Società di Viaggi, in considerazione del fatto che, in base ad una precisa clausola contrattuale, e cioè la n. 3 per cui la Società di Viaggi “si riserva la facoltà di consentire il pagamento del prezzo a mezzo di società finanziaria da Lei indicata, con relativi oneri a carico dell’Acquirente”, questa era la condizione cui era subordinata l’accettazione di tale forma di pagamento.
Dati che trovavano la propria fonte nei documenti agli atti, ma che il Tribunale adito – a nostro modesto avviso- avrebbe potuto anche verificare, ad esempio, sentendo a sommarie informazioni quei testimoni che, pur indicati, non solo non sono stati sentiti, ma neppure presi in considerazione.
Sig.ri B., fermamente convinti delle proprie ragioni, non intendono fermarsi qui.
Perciò, nonostante il codice di procedura non preveda la possibilità di impugnare il citato provvedimento emesso a conclusione del reclamo, hanno deciso di non voler subire in silenzio e,  pertanto, attualmente, si stanno valutando tutte le possibilità percorribili per ottenere tutela.
Sarà Nostra cura, pertanto, tenerVi aggiornati sul prosieguo di questa vicenda, che, si badi bene, non vuole essere né diventare lo spunto per sterili polemiche, ma, diversamente, è la testimonianza di due consumatori che pretendono tutela.

Insidie sulle strade pubbliche che causano rovinose cadute

By Casi

Con sentenza n. 13357/2009, il Tribunale di Milano ha accolto la domanda risarcitoria proposta – con il patrocinio dell’Avv. Luigi Lucente – da un cittadino che, alla guida del proprio motociclo, mentre percorreva una strada urbana di una metropoli del nord Italia, perdeva l’equilibrio e cadeva rovinosamente a terra a causa di una macchia d’olio dispersa sull’asfalto.

Rapporti tra fratelli nell’ambito dell’assistenza e gestione dell’anziano genitore in stato di bisogno

By Casi

Una figlia non può pretendere dagli altri fratelli il rimborso di spese sostenute per la cura e assistenza di un anziano genitore, per quella parte in cui le stesse superino quanto necessario per la vita dell’alimentando.
In ogni caso, gli alimenti dovranno essere ripartiti in proporzione delle condizioni economiche di chi deve somministrarli (cfr. art. 438 c.c.)