Si segnalano due importanti sentenze della Suprema Corte di Cassazione Civile, Sez. Lavoro: la numero 8527 del 14 aprile 2011 e la n. 5337 del 4 marzo 2011. Entrambe le sentenze riguardano episodi di demansionamento posti in essere dal medesimo datore di lavoro, ma nei confronti di due diversi lavoratori. X
La sentenza n. 5337 del marzo 2011 ha ad oggetto la vicenda di un lavoratore che sosteneva di aver subito, nel 1995 un demansionamento, in quanto, a seguito di un riordino organizzativo, il datore di lavoro lo aveva retrocesso da “capo turno” ad “addetto alla sorveglianza”. Il lavoratore ricorreva al Pretore di Milano chiedendo l’accertamento del lamentato demansionamento, la condanna della società alla riattribuzione delle precedenti mansioni, nonché la condanna della medesima al risarcimento del danno in misura pari ad una mensilità lorda di retribuzione per ciascun mese di dequalificazione subita a partire dal 15/5/1995.
La domanda veniva rigettata e il lavoratore impugnava la sentenza avanti la Corte d’Appello di Milano, che, con sentenza 11 maggio 2001, n. 298, condannava l’Azienda a riassegnare al dipendente le mansioni di Capoturno o altre equivalenti e al risarcimento del danno, in misura pari al 10% della retribuzione globale di fatto mensile a partire dal 15.5.95.
Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione e la Suprema Corte, con sentenza 29 ottobre 2004, n. 20889, respinti i motivi di ricorso avverso l’accertamento del demansionamento, accoglieva quello relativo alla condanna risarcitoria, cassava in parte qua la sentenza della Corte d’Appello di Milano, e rimetteva il giudizio avanti alla Corte d’Appello di Genova.
Il lavoratore con ricorso depositato il 13/6/2005 riassumeva la causa avanti la Corte d’Appello di Genova per conseguire il risarcimento dei danni derivanti dall’acclarato demansionamento, deducendo che l’accertato demansionamento aveva procurato quattro tipi di danno: 1) danno alla vita di relazione; 2) compromissione della capacità di concorrere nei rapporti sociali ed economici; 3) danno da perdita di professionalità; 4) danno patrimoniale diretto per il dimezzarsi della possibilità di accedere ai turni di reperibilità.
Il lavoratore sosteneva che tutti i predetti pregiudizi erano dimostrabili in via presuntiva e liquidabili in via equitativa, in misura pari all’ammontare di una mensilità di retribuzione lorda per ogni mese di dequalificazione.
Il datore di lavoro costituitosi eccepiva l’irritualità della riproposizione di domande risarcitorie già respinte nelle precedenti fasi del giudizio ed esorbitanti dal limite di cognizione del giudizio di rinvio, quale delineato dalla Corte di legittimità.
Nel merito il datore di lavoro osservava che, in relazione a tutte le ragioni di danno lamentate, non era sussistente la necessaria prova secondo i criteri dettati dal recente orientamento giurisprudenziale in ordine ai danni da demansionamento.
La Corte d’Appello di Genova, rilevato che il lavoratore non aveva fornito la prova del pregiudizio da demansionamento, rigettava la domanda volta a conseguire il risarcimento del danno. Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia.
La Suprema Corte rigettava il ricorso del lavoratore statuendo che: “In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; e che “In caso di accertato demansionamento professionale, la risarcibilità del danno all’immagine derivato al lavoratore a cagione del comportamento del datore di lavoro presuppone che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità, e che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha rilevato la correttezza della decisione della corte territoriale che non solo ha escluso che la retrocessione da capo turno ad addetto alla sorveglianza comportasse l’esistenza di un danno “in re ipsa” rispetto alla dedotta lesione dell’immagine professionale, ma ha ritenuto di poter trarre una presunzione di segno contrario in relazione all’ “estrema modestia della limitata supremazia esercita in precedenza” dal lavoratore)”.
La sentenza n. 8527 dell’aprile 2011 trae, invece, spunto dalla vicenda accaduta ad un lavoratore che aveva citato in giudizio il datore di lavoro per ottenere la condanna di quest’ultimo al risarcimento del danno patrimoniale (differenze retributive) e del danno non patrimoniale (lesione della dignità personale e professionale) subiti in conseguenza della violazione del divieto di demansionamento posto in essere dal datore di lavoro.
Il dipendente aveva chiesto al datore di lavoro di essere trasferito presso un’altra sede della società. Il datore di lavoro accoglieva la domanda e disponeva il trasferimento del lavoratore presso la sede richiesta, ma lo adibiva a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali era stato assunto e che svolgeva nella sede di provenienza. Il lavoratore, peraltro, non era in possesso delle competenze necessarie per svolgere le mansioni inferiori alle quali era stato assegnato e il datore non gli aveva mai fornito la formazione e le istruzioni necessarie per l’espletamento dei nuovi compiti. Il demansionamento subito aveva comportato per il lavoratore una riduzione dello stipendio oltre ad un pregiudizio per la dignità personale e professionale.
L’azione promossa dal lavoratore in primo grado avanti il Tribunale di Milano si concludeva con sentenza di accertamento del demansionamento e condanna del datore di lavoro al pagamento di € 36.500,00, oltre rivalutazione e interessi, per il riconoscimento del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale.
La sentenza di primo grado veniva appellata avanti la Corte d’Appello di Milano che rigettava il ricorso, confermando la sentenza di primo grado.
Avverso la statuizione della Corte d’appello il datore di lavoro promuoveva ricorso per Cassazione fondato su tre motivi.
Con il primo motivo il datore di lavoro lamentava che la Corte d’Appello nello svolgimento del suo ragionamento aveva fatto riferimento solo alle mansioni svolte dal lavoratore prima del trasferimento e non anche alla declaratoria delle mansioni inferiori alle quali lo stesso assumeva di essere stato adibito; con il secondo motivo denunciava violazione dell’art. 2103 c.c. sostenendo che la norma sarebbe derogabile con il consenso delle parti; e con il terzo motivo lamentava che l’organo giudicante non aveva sufficientemente motivato in che cosa consistesse effettivamente il danno patito dal lavoratore.
Con riferimento al primo motivo di doglianza la Cassazione statuiva che: “il ragionamento seguito dalla Corte d’Appello di Milano è corretto e conforme agli insegnamenti della Corte di legittimità, secondo cui, ai fini della verifica del legittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datore di lavoro, deve essere valutata dal giudice di merito – con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato – la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta (Cass. n. 13173/09).”
Quanto al secondo motivo la Suprema Corte evidenziava che “l’art. 2103 c.c., che tutela la professionalità del prestatore di lavoro nonché il diritto a prestare l’attività lavorativa per la quale si è stati assunti o si è successivamente svolta, vietandone l’adibizione a mansioni inferiori, è norma imperativa e quindi non derogabile nemmeno tra le parti, come sancisce l’ultimo comma di tale norma:<<Ogni patto contrario è nullo>>”.
Infine la Cassazione statuiva anche che “in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’art. 2103 c.c., il giudice di merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr., Cass. n. 8893/2010; Cass., n. 14729/2006)”.
Entrambe le sentenze della Corte di Cassazione confermano l’orientamento ormai consolidato in tema di onere probatorio: non ammettono la sussistenza di una prova del danno in re ipsa, ma attribuiscono rilevanza alle presunzioni intese come quegli elementi di fatto indicativi della quantità e qualità dell’esperienza lavorativa pregressa, della tipologia di professionalità colpita, della durata del demansionamento.
Tuttavia solo la sentenza più recente, la n. 8527/2011 riconosce il risarcimento di un danno alla professionalità del lavoratore.
Nella sentenza 5237/2011 il ragionamento presuntivo è usato a contrario, ossia per escludere la sussistenza del danno in quanto si ritiene che “l’estrema modestia della supremazia esercitata” dal lavoratore prima del demansionamento lascia presupporre che non si sia verificato alcun danno perché manca il requisito della “gravità dell’offesa”. Il risarcimento del danno non patrimoniale viene negato sia sotto il profilo del mancato assolvimento dell’onere di allegazione, sia sotto il profilo della gravità dell’offesa.
In sostanza la sentenza individua nel criterio della gravità dell’offesa un requisito ulteriore, necessario per il riconoscimento e il risarcimento del danno non patrimoniale alla persona in conseguenza della violazione di diritti costituzionalmente garantiti. Per avere diritto al risarcimento il bene costituzionalmente tutelato e garantito deve essere leso oltre una determinata soglia che superi un grado minimo di tolleranza.
Sul piano teorico l’iter logico della sentenza n. 5237/2011 è condivisibile, tuttavia si osserva che in tal modo si finisce per utilizzare la categoria della “gravità dell’offesa” senza indicare esattamente quale sia la soglia di tollerabilità, con la rischiosa conseguenza che potrebbe non essere riconosciuto il risarcimento per quei casi per così dire “meno evidenti”.