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Il genitore indifferente può essere punito ed educato a rispettare i provvedimenti di affidamento del minore

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Il genitore indifferente può essere punito ed educato a rispettare i provvedimenti di affidamento del minore
Per indurre il genitore inadempiente a ravvedersi, la L. 56 del 2006 ha introdotto i rimedi di carattere sanzionatorio e risarcitorio di cui all’art. 709 ter del Codice di Procedura Civile.

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Rivista TECNICA OSPEDALIERA – La cartella clinica nel processo

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La cartella clinica nel processo

Nel nostro attuale sistema processuale la cartella clinica costituisce un importante strumento per verificare a posteriori l’esistenza di profili di responsabilità nell’erogazione della prestazione sanitaria e la base di partenza imprescindibile nella valutazione medico-legale finalizzata alla ricostruzione storica degli eventi morbosi tecnicamente rilevanti in sede penale, civile, previdenziale e assicurativa.

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Rivista TECNICA OSPEDALIERA – Informazione al paziente: non solo dovere, ma opportunità per un rapporto di fiducia

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«Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato», recita l’art. 5 della Convenzione di Oviedo. Enunciazione pressoché tautologica, se non fosse che nella realtà dei fatti si presta a non pochi fraintendimenti per l’assenza di chiarezza nei colloqui interlocutori e di spiegazioni, in linguaggio corrente, del trattamento sanitario da seguire. E ciò, peraltro, rischia di minare alla radice il rapporto di fiducia medico-paziente.

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Abuso nell’utilizzo di un bene comune: come proteggersi dal “bullo” del condominio

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Pubblicato sul sito www.7giorni.info

Egregio Avvocato,
le vorrei chiedere un consiglio in merito ad un problema di parcheggio in un condominio. Un condomino parcheggia da molto tempo nello stesso posto auto condominiale. Premetto che ci sono più posti liberi e nessuno è assegnato, quindi chi arriva parcheggia, anche eventuali ospiti. Alcuni condòmini – tra cui il sottoscritto – hanno parcheggiato nel posto in oggetto, e qui è scoppiata la lite. Il signore ha cominciato a dire: «Questo parcheggio è mio, io parcheggio qui da tanti anni». Addirittura, il signore in questione, occupa sempre il posto facendo la spola con un’altra macchina, di fatto tenendolo sempre occupato. L’Amministratore, stufo, non vuole metterci più becco. Come possiamo agire noi altri condòmini? Lettera Firmata

Gentile Lettore,
da quanto leggo nel suo quesito in cui non fa cenno ad alcuna previsione relativa all’area di parcheggio risultante dal titolo di acquisto dell’unità abitativa, precisandomi, invece, che nessuno dei posti auto di cui si discute risulterebbe assegnato all’uno piuttosto che all’altro condomino, ne deduco che l’area di cui si tratta debba essere considerata una parte comune dell’edificio, in base a quanto previsto dall’art. 1117 n. 2 del Codice Civile, nella sua più recente formulazione, introdotta dall’art. 1 della L. 11 dicembre 2012 n. 220 in vigore dal 17 giugno 2013.
Ciò premesso, in generale, quando si parla di uso delle cose comuni – in assenza di diverse e specifiche disposizioni sancite dal regolamento condominiale ovvero in assenza di delibere assembleari che abbiano disciplinato diversamente tale uso – siamo abituati a fare riferimento all’art. 1102 del Codice Civile, che recita: “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”.
Per comprendere come intendere in maniera corretta la portata di tale norma, è necessario far riferimento alla giurisprudenza e, in particolar modo, alla Corte di Cassazione, per cui “la nozione del pari uso della cosa comune non è da intendersi nel senso di uso necessariamente identico e contemporaneo, fruito cioè da tutti i condomini nell’unità di tempo e di spazio, perché se si richiedesse il concorso simultaneo di tali circostanze si avrebbe la conseguenza dell’impossibilità per ogni condomino di usare la cosa comune tutte le volte che questa fosse insufficiente a tal fine” (Cass. 18 giugno 2005 n. 12873).
In tale contesto, quindi, assume un ruolo fondamentale sia l’Amministratore, fra i cui compiti, ai sensi dell’art. 1130 del Codice Civile, rientra anche quello di curare l’osservanza del regolamento di condominio e disciplinare l’uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell’interesse comune, in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a ciascuno dei condomini; sia l’Assemblea.
L’Assemblea, ad esempio, può imporre dei turni nell’utilizzo dei posti auto disponibili e vietare, proprio per la logica dell’avvicendamento, di poter occupare, al di fuori del proprio turno, spazi lasciati temporaneamente vuoti da altri.
Ad affermarlo è la seconda sezione civile della Cassazione con la sentenza 14 giugno-19 luglio 2012 n. 12485, che ha confermato la legittimità di una delibera del condominio, in cui, dato il numero insufficiente di posti auto rispetto ai residenti (11 rispetto ai 12 condomini), era stata stabilita la regola della turnazione che non poteva essere infranta neanche se il condomino avente diritto in quel momento non usufruiva dello spazio per la macchina.
Orbene, nel caso che ha sottoposto alla mia attenzione, mi sembra di aver inteso che non vi siano problemi di spazi, poiché l’area di parcheggio parrebbe avere posti auto sufficienti ad ospitare non solo i condomini, m anche gli occasionali visitatori.
Questo, tuttavia, non giustifica certamente l’abuso perpetrato dal condomino, che pretende di rivendicare la proprietà di un determinato posto auto che, invece, non gli è mai stato assegnato, facendo, in tal modo un uso illegittimo del bene comune.
Anche perché, magari, questo comportamento potrebbe tradursi, comunque, in un godimento di carattere privilegiato a sfavore degli altri condomini: si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui il posto auto occupato stabilmente sia molto più agevole e comodo per accedere all’edificio ovvero sia riparato, a differenza degli altri, da una tettoia.
Inoltre, nulla esclude che un domani, eccependo un uso continuativo ed esclusivo del posto auto, il condomino ritenga, addirittura, di averne acquisito la proprietà per usucapione (il che, poi, sarebbe certamente tutto da vedere, ma potrebbe comunque creare ulteriori problemi e liti a livello condominiale, che, magari, è meglio prevenire!).
Riassumendo, dunque, qualora gli usuali mezzi di comunicazione (telefonate, fax, etc.) non riescano a far cessare l’abuso, cosa si può fare per tutelarsi dal “bullo” del condominio???
Il consiglio che, in base alle informazioni che mi ha fornito, posso darLe, è quello, innanzitutto, di esaminare attentamente il regolamento condominiale, per verificare se preveda qualcosa in merito all’utilizzo dell’area di parcheggio, nonché se preveda sanzioni pecuniarie a carico dei trasgressori delle sue disposizioni, peraltro, aggiornate, dall’art. 14 della L. 11 dicembre 2012 n. 220, che sancisce: “per le infrazioni al regolamento del condominio può essere stabilito, a titolo di sanzione, il pagamento di una somma fino a € 200,00 e, in caso di recidiva, fino a € 800,00. La somma è devoluta al fondo di cui l’amministratore dispone per le spese ordinarie”.
Qualora così non fosse, potrebbe, comunque, portarsi la questione in assemblea, che può essere convocata in via straordinaria dall’amministratore quando questi lo ritiene necessario o quando ne è fatta richiesta da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell’edificio. Decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta, i detti condomini possono provvedere direttamente alla convocazione (cfr. art. 66 Disp. Att. C.C.).
In sede di assemblea si potrà disciplinare in modo più puntuale l’utilizzo dell’area del parcheggio condominiale, qualora ciò corrisponda ad un’esigenza concreta di tutti i comunisti (vedi il caso dei turni richiamato nella precedente decisione della Cassazione per garantire a tutti di servirsi in maniera paritaria del bene comune); oppure, semplicemente, si potrà discutere dell’abuso denunciato affinchè venga valutato da tutti i condomini ai sensi dell’art. 1117 quater del Codice Civile, anch’esso introdotto dalla recente riforma del condominio e che recita: “In caso di attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d’uso delle parti comuni, l’amministratore o i condomini, anche singolarmente, possono diffidare l’esecutore e possono chiedere la convocazione dell’assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie. L’assemblea delibera in merito alla cessazione di tali attività con la maggioranza prevista dal secondo comma dell’articolo 1136”.
Le azioni giudiziarie richiamate da tale norma che potranno essere instaurate in sede civile, dovranno essere precedute da una procedura di mediazione obbligatoria, all’esito della quale, qualora non si raggiungesse un accordo, riguardando la misura e modalità di uso dei servizi di condominio, verranno trattate da un Giudice di Pace.
Non ritengo, tuttavia, che, nel caso di specie, un’azione giudiziaria potrebbe rivelarsi efficace, per diversi ordini di ragioni.
Innanzitutto, in assenza di una norma condominiale che limiti temporalmente l’utilizzo del posto auto da parte di ciascun condomino, sarebbe ingiusto e impensabile che, a lui solo, fosse imposto questo tipo di vincolo.
Inoltre, anche ammesso e non concesso venisse vietato al condomino in questione di “fare la spola con un’altra macchina”, per impedirgli di tenere, di fatto, sempre occupato lo stesso posto auto, in ogni caso, a livello pratico, trattandosi di una violazione occasionale, sarebbe praticamente impossibile darvi esecuzione.
Infine, anche un’eventuale domanda di risarcimento del danno formulata in considerazione del mancato godimento della cosa comune, dovrebbe essere dimostrata da chi la propone e, nel caso di cui si tratta, se come pare, la possibilità di parcheggiare è stata comunque garantita a tutti i condomini, sarebbe una prova davvero ardua da offrire al Giudice.
A conti fatti, dunque, in considerazione dei tempi e dei costi necessari per iniziare e portare a termine una causa, nonchè dei risultati prevedibilmente ottenibili, sarebbe certamente più utile ai vostri scopi trovare una soluzione regolando in modo puntuale con una delibera assembleare l’utilizzo dell’area di parcheggio, in modo tale da impedire espressamente tali abusi e prevedere, in caso di sua violazione, delle sanzioni pecuniarie.
Essere costretti a mettere mano al portafogli è un deterrente di grande impatto e può far scendere a miti consigli anche il bullo più incallito!!!

Cambiamento di profilo da infermiere a Tecnico della Prevenzione nelle aziende sanitarie

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Pubblicato sul sito www.7giorni.info

Egregio Avvocato,
lavoro presso un’azienda sanitaria da novembre 2011 con mansioni di infermiere e qualifica D2. Nel novembre 2012 ho conseguito la laurea di I livello in “Tecniche della prevenzione dell’ambiente e dei luoghi di lavoro”, così, nel mese di dicembre 2012, ho presentato domanda al Dipartimento di Prevenzione della ASL presso la quale sono assunto per ottenere cambio di profilo professionale da infermiere a tecnico della prevenzione, essendo la qualifica del tecnico di prevenzione pari a quella di infermiere categoria D. La ASL, prima che presentassi la mia domanda, nel giugno 2012 aveva esperito concorso di mobilità per 6 posti di tecnico della prevenzione, assumendo all’esito quattro tecnici. Non ho mai ricevuto alcuna risposta alla mia domanda da parte della Direzione. Nel giugno 2013 la ASL ha pubblicato un nuovo bando di concorso per un posto di tecnico della prevenzione. Volevo sapere se posso fare ricorso al giudice del Lavoro poichè l’azienda sanitaria pubblica un bando di concorso per una figura professionale per cui vi sono già domande di trasferimento tra i suoi dipendenti?
Lettera firmata

Gentile lettore,

presto riscontro alla Sua domanda con la collaborazione della Collega di studio Ilaria Donini che si occupa precipuamente delle questioni di natura giuslavoristica.
Preme segnalare, anzitutto, che il quesito da Lei proposto è stato epurato da tutti quegli elementi che potrebbero in qualche modo ricondurre alla Sua identità e/o a quella della Sua datrice di lavoro.
Preliminarmente osservo che il rapporto di lavoro subordinato che Lei ha in essere con la Sua ASL è soggetto alla disciplina delle norme generali dettate per il pubblico impiego ed è quindi riconducibile alle disposizioni del Codice Civile in materia e alle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le disposizioni contenute nel Testo Unico approvato con il d.lgs 165/2001, che costituiscono disposizioni di carattere imperativo, nonché delle disposizioni D.lgs.n.150/2009 (c.d. decreto Brunetta). Per quanto non contenuto nelle predette fonti i rapporti di lavoro de quibus sono regolati contrattualmente dalle disposizione dei CCNL di settore. La contrattazione collettiva è articolata su due livelli: nazionale ed integrativa. Tutti i CCNL di riferimento del comparto sanitario hanno poi introdotto un livello di coordinamento regionale intermedio.
La fattispecie che sottopone alla mia attenzione rappresenta una ipotesi di passaggio di un dipendente del personale c.d.“di comparto” (ossia del personale appartenente ai livelli non dirigenziali) del servizio sanitario nazionale ad un profilo diverso rispetto a quello per cui è stato assunto, di uguale livello economico, all’interno della medesima categoria contrattuale (D).
Per quanto concerne tali tipi di passaggi la norma istitutiva è rappresentata dall’art. 17, comma 3, del CCNL comparto sanità del 07.04 1999 per il quadriennio giuridico 1998-2001, ai sensi del quale i passaggi orizzontali dei dipendenti all’interno della medesima categoria, tra profili diversi dello stesso livello economico, vengono effettuati dalle aziende ed enti a domanda degli interessati che siano in possesso dei requisiti culturali e professionali previsti per l’accesso al profilo della declaratoria come indicata all’allegato 1 del CCCNL medesimo. L’art. 4 del medesimo CCNL 07.04.1999 area comparto sanità demanda alla contrattazione integrativa (sede aziendale) la materia relativa al sistema classificatorio del personale, concernente, in particolare, i criteri generali per la definizione delle procedure per le selezioni per i passaggi all’interno di ciascuna categoria, di cui all’art. 17 del ridetto CCNL.

Il successivo CCNL 1998-2001 del comparto sanità all’art. 15 prevede la possibilità di progressione interna dei dipendenti dell’Azienda o Ente, nel rispetto di quanto previsto per l’accesso all’esterno, nei limiti dei posti disponibili nella dotazione organica di ciascuna categoria e dei relativi profili, mediante :a) passaggi da una categoria all’altra immediatamente superiore (verticale); b) passaggi all’interno delle categorie B e D; c) passaggi nell’ambito della stessa categoria tra profili diversi dello stesso livello (orizzontale). Le aziende e gli enti possono bandire i concorsi pubblici o avviare gli iscritti nelle liste di collocamento anche per i posti di cui al comma 1, punti b) e c) solo se le selezioni interne hanno esito negativo o se mancano del tutto all’interno le professionalità da selezionare.

Ed ancora l’art. 17 CCNL 1998-2001 del comparto sanità prevede che i passaggi orizzontali del dipendente all’interno della medesima categoria tra profili diversi dello stesso livello, sono effettuati dalle Aziende ed enti, a domanda degli interessati che siano in possesso dei requisiti culturali e professionali previsti per l’accesso al profilo dalla declaratoria di cui all’allegato 1. E precisa che, in caso di più domande, si procede alla selezione interna, utilizzando anche i criteri dei commi 1 e 2; ove sia richiesto il possesso di requisiti abilitativi prescritti da disposizioni legislative, si ricorre comunque alla preventiva verifica dell’idoneità professionale, anche mediante prova teorico-pratica. L’articolo nel definire i criteri e le procedure, rinvia per la definizione delle procedure di svolgimento delle selezioni ad appositi atti regolamentari Aziendali, le cui linee guida sono contenute nell’allegato 2 del medesimo CCNL.

Dunque secondo le previsioni contrattuali di livello nazionale sopra citate la materia dei passaggi di livello è stata demandata alla contrattazione integrativa decentrata; per questo i criteri per l’avvio delle procedure relative alla selezione interna per il passaggio dei dipendenti all’interno della medesima categoria tra profili diversi dello stesso livello devono essere preventivamente individuati dalle Aziende con atti regolamentari sulla base delle linee guida indicate nell’allegato n. 2 del CCCNL comparto sanità sottoscritto il 07.04.2009.

Ciascuna azienda provvede, quindi, alla definizione delle modalità di avvio e di svolgimento della procedura e delle modalità per la proposizione della domanda, all’indicazione dei requisiti specifici professionali e culturali richiesti per il passaggio al livello d’interesse, all’indicazione delle modalità per la verifica della sussistenza dei requisiti generali e specifici richiesti, nonché alla verifica che il mutamento di profilo in questione non comporti un aggravio in termini economici a carico dell’azienda sanitaria. Di norma gli accordi aziendali integrativi prevedono che i passaggi de quibus siano effettuati in correlazione alle prevalenti esigenze organizzative aziendali; da ciò, spesso, consegue che la domanda del dipendente interessato alla variazione di profilo non abbia carattere vincolante ma soltanto di manifestazione di interesse. Quando all’esito dell’iter l’azienda ritiene di procedere al passaggio di profilo professionale, il Direttore Generale, acquisiti i pareri favorevoli del Direttore Amministrativo e del Direttore Sanitario, per le rispettive competenze, delibera l’inquadramento dipendente nel profilo professionale richiesto.

Ciò premesso, fermo restando che per fornire un parere puntuale è necessario conoscere il Regolamento adottato – attraverso accordo decentrato aziendale dalla Sua ASL – e con il quale l’ente medesimo ha disciplinato le procedure di passaggio orizzontale all’interno della stessa categoria tra profili diversi dello stesso livello (art. 17, comma 3 CCNL 07.04.1999), con riferimento alle tempistiche della domanda da Lei presentata, osservo che la stessa è successiva al primo bando di concorso di mobilità e quindi senz’altro il primo bando è stato regolarmente indetto dall’azienda.

Quanto al secondo bando lo stesso è stato indetto successivamente alla proposizione della sua domanda (protocollata in data anteriore) e senza che alla sua richiesta di passaggio dal profilo di infermiere al profilo di “Collaboratore Tecnico della prevenzione” con inquadramento sempre nella categoria “D” sia stato mai fornito alcun riscontro da parte dell’ente. Ciò detto, qualora dall’esame dell’accordo aziendale decentrato con il quale la Sua ASL dovrebbe aver disciplinato il passaggio orizzontale non dovessero emergere disposizioni in contrasto con quelle qui esaminate, a mio parere, potrebbe rivolgersi all’Autorità Giudiziaria competente al fine di tutelare i suoi diritti. In ogni caso, prima di assumere qualunque iniziativa, Le consiglio di contattare il rappresentante sindacale aziendale per recuperare il testo dell’accordo integrativo/regolamento con cui la Sua ASL di appartenenza dovrebbe aver disciplinato le procedure di passaggio orizzontale.

Cosa deve fare il condominio che vuole installare delle inferriate alle finestre per tutelarsi dal pericolo di intrusioni?

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Pubblicato sul sito www.7giorni.info

Egregio avvocato,
abbiamo da poco comprato casa in un mega condominio. La casa è al primo piano e abbiamo deciso di mettere le inferriate. Premetto che ci sono già due condomini che hanno le inferriate, ma quelle a “soffietto”. Ho chiesto all’Amministratore il permesso di installare delle inferriate fisse e mi hanno detto che non è possibile perché, essendoci già quelle a soffietto, devo attenermi a quelle. Il problema è che quelle a soffietto, oltre ad essere molto antiestetiche, sono anche poco sicure e piuttosto inutili.
C’è qualcosa che posso fare per tutelare la mia sicurezza? Cosa posso rispondere all’Amministratore?

Ilaria

 

Gentile lettrice,
nel prestare riscontro alla Sua cortese domanda, Le segnalo che, nell’ipotesi di unità immobiliare ubicata in un condominio, sia quando si intende intervenire sulle parti comuni, sia quando l’intervento afferisce la proprietà individuale esclusiva, è necessario, innanzitutto, verificare se esiste un regolamento condominiale, accertarne la natura e controllare se nello stesso sono stati previsti specifici divieti in merito all’esecuzione di opere modificative.

Nell’ambito dei regolamenti condominiali, in base alla fonte di produzione possiamo distinguere tra regolamenti contrattuali (predisposti dal costruttore o dall’originario unico proprietario e richiamati nei singoli atti di acquisto), regolamenti approvati dall’assemblea all’unanimità e regolamenti approvati dall’assemblea a maggioranza.

L’importanza della distinzione tra regolamento contrattuale e assembleare approvato all’unanimità, da un parte, e regolamento assembleare approvato a maggioranza, dall’altra, risiede nel fatto che quest’ultimo non può prevedere norme che limitino la destinazione e l’uso delle proprietà esclusive individuali, ovvero norme che limitino i diritti soggettivi dei singoli proprietari.

Ciò detto, nel caso che ci occupa, posto che il posizionamento delle inferriate de quibusrappresenta un intervento sulla proprietà esclusiva del singolo condomino, occorrerà quindi preliminarmente verificare la natura del regolamento condominiale; e, se ci si trova in ipotesi di regolamento contrattuale o assembleare adottato all’unanimità, verificare se per l’operazione di installazione delle inferriate è stato previsto il preventivo consenso dell’amministratore e/o dell’assemblea. In tal caso il parere dell’Amministratore o dell’assemblea risulta vincolante. In ogni caso, qualora sia consentita la facoltà di installare le inferriate, occorrerà poi verificare se il Condominio abbia previsto l’adozione di particolari accorgimenti a tutela del decoro architettonico del condominio.

In particolare, la Giurisprudenza, con sentenza della Corte di Cassazione n. 8731 del 1998, si è espressa in questo senso: “I regolamenti condominiali possono contenere norme a tutela del decoro architettonico dello stabile, aventi la caratteristica di ridurre il potere della proprietà personale ed esclusiva del singolo. Ma in questo caso, se il mutamento che si vuole portare è di modesta rilevanza e, soprattutto, non cagiona pregiudizio economicamente determinabile e se la necessità dei condomini di tutelare la sicurezza dei propri beni e della propria persona risulta assolutamente fondata, il divieto contenuto nel regolamento condominiale non si dovrà applicare.

In buona sostanza sembrerebbe che il montaggio di inferriate in condominio debba ritenersi ammesso qualora non arrechi pregiudizio al decoro architettonico dello stabile e/o comunque, quando pur arrecandolo, il danno sia giustificato da esigenze di sicurezza, in quanto in tale ipotesi sarebbe tollerabile anche un lieve pregiudizio di rilievo economico derivante dall’alterazione architettonica. In linea generale, infatti, ciascun condomino ha diritto di proteggere la propria abitazione.

Se, invece, come di norma avviene, il regolamento condominiale non contiene alcuna disciplina specifica circa l’installazione di inferriate alle finestre, o, più in generale, in ordine alla possibilità del singolo condomino di eseguire opere nella porzione immobiliare di sua esclusiva proprietà, il diritto soggettivo del singolo condomino incontrerà il limite statuito dall’art. 1122 del Codice Civile, così come recentemente riformato dalla Legge n. 220 dell’ 11.02.2012 e in vigore dal 17.06.2013, a norma del quale: “Nell’unità immobiliare di sua proprietà, ovvero nelle parti normalmente destinate all’uso comune, che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all’uso individuale, il condomino non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio. In ogni caso è data preventiva notizia all’amministratore che ne riferisce all’assemblea.

Dunque, alla luce della recente “Riforma del Condominio” il diritto del singolo condomino ad intervenire nell’unita immobiliare di sua proprietà è subordinato non solo al rispetto dell’armonia e del decoro architettonico della facciata dello stabile, ma anche all’obbligo di dare preventiva notizia della volontà di effettuare l’intervento de quo all’Amministratore, il quale, a sua volta, è tenuto a darne notizia all’assemblea.

Poiché non è possibile stabilire in astratto se una qualsiasi installazione di inferriate, a protezione esterna delle finestre leda il decoro architettonico di un edificio, occorrerà valutare caso per caso ciascuna situazione.

Per quanto concerne la fattispecie in esame, correttamente la lettrice ha comunicato all’Amministratore l’intenzione di apporre inferriate fisse alle finestre del proprio immobile. Il diniego dell’Amministratore e soprattutto la giustificazione addotta, non possono precludere il diritto soggettivo della lettrice.
In mancanza di un tassativo divieto in tal senso contenuto nel Regolamento Condominiale (che deve avere natura contrattuale o essere adottato dall’assemblea all’unanimità) o di specifiche previsioni a tutela del decoro architettonico dell’edificio, la circostanza che altri due condomini abbiano optato per l’installazione di inferriate a soffietto non può precludere la possibilità di quest’ultima apporre le inferriate fisse.

E, comunque, come indicato poc’anzi, anche nel caso in cui il regolamento preveda norme a tutela del decoro architettonico, occorrerà sempre valutare se l’intervento in questione arreca un pregiudizio economicamente valutabile allo stabile, e se pur, arrecandolo si accompagna ad un’utilità, quale quella derivante dalla protezione delle persone o cose da eventuali intrusioni tale da compensare l’alterazione architettonica che non sia di grave e appariscente entità (Cfr. Cass., Sez. II, 15 maggio 1987, n. 4474). In presenza di queste condizioni l’apposizione delle inferriate fisse dovrebbe ritenersi lecita.

Peraltro, se l’edificio in questione non ha particolare valore storico, archeologico od artistico o pregi particolari, e, se a finestre chiuse le inferriate non si vedono, non sembra che l’intervento in questione possa considerarsi lesivo del decoro architettonico dello stabile.

Infine si precisa che se il Regolamento condominiale non impone alcun limite al diritto del singolo condomino di eseguire opere sulla porzione immobiliare, l’Amministratore dopo essere stato notiziato dal singolo condomino dell’intenzione dello stesso di effettuare l’intervento de quo non può unilateralmente negare il consenso ma deve riferire all’assemblea, evidentemente allo scopo di permettere a tale consesso di valutare la situazione e di adottare gli opportuni provvedimenti.

Quindi consigliamo alla lettrice di controllare le previsioni del Regolamento di Condominio e, in ogni caso, di inviare all’Amministratore una comunicazione scritta circa la propria intenzione di apporre le inferriate fisse, con invito a quest’ultimo, ai sensi dell’art. 1222, a riferire all’assemblea.

Come difendersi da un coerede ingordo?

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Pubblicato sul sito www.7giorni.info

Egregio Avvocato,
Le sottoponiamo il nostro quesito sicure che Lei potrà fornirci il suo autorevole consiglio per la risoluzione del nostro problema. Siamo tre sorelle comproprietarie di un immobile del quale ne deteniamo il possesso in misura del 25% ciascuna; l’altro 25% è di proprietà di una quarta nostra sorella. Il suddetto immobile, pur essendo di proprietà esclusiva di noialtre quattro figlie, è stato utilizzato da nostra madre, fin dalla morte di nostro padre, come abitazione principale in qualità di coniuge erede.

Qualche anno fa la nostra quarta sorella, dicendo di volersi separare dal marito, se ne andò a vivere arbitrariamente assieme a nostra madre senza però aver mai cambiato residenza anagrafica e fino ad oggi senza aver fatto la separazione legale; per cui risulta sempre sposata e con residenza anagrafica a casa del marito. Ora, a seguito della morte di nostra madre avvenuta qualche mese fa, lei continua ad occupare indebitamente l’appartamento rifiutandosi di voler trovare un accordo comune affinchè potessimo metterlo in vendita e dividerci il ricavato in quattro. La sua assurda pretesa è quella di rimanerci dentro, da sola perchè ha due figli sposati, chissà per quanto tempo. Secondo Lei, Egr. Avvocato, quali possono essere le possibili soluzioni più convenienti per tutte da adottare? Questa nostra sorella può pretendere – con la sola sua quota di 1/4 – di approfittarsi di noi e fare solo i suoi comodi? Le spese varie, per le utenze dei contratti ancora in essere, a carico di chi sono? E nel caso le pagasse lei, in quanto usufruisce dell’immobile, potrà vantare in seguito qualche diritto? E, ci permetta una cattiveria, noi tre abbiamo avuto sempre il sentore che nostra sorella ne approfitasse, con la scusa dell’incompatibilità col marito, per andarsene a casa di nostra madre quando era ancora in vita, per poi rimanerci per sempre.

Infatti, alla luce di quanto successo, avevamo pienamente ragione di dubitare. A questo punto ci viene anche da pensare che il marito fosse stato d’accordo con lei su questa sceneggiata e magari trovarselo assieme a lei nella nostra casa. Comunque la nostra ferma intenzione è sempre quella di liberarci di questo immobile e venderlo per recuperare un po’ di soldi per ciascuna di noi. Scusandoci per esserci dilungate per esporre al meglio la situazione, nel ringraziarLa anticipatamente per l’attenzione che ci dedicherà e per i suoi preziosi consigli, distintamente La salutiamo.

Silvia

 

Gentili Signore,
quando un bene è in comune tra più soggetti può capitare (anzi capita molto spesso) che solo qualcuno dei comproprietari (o anche solo uno di questi) si arroghi il suo godimento “esclusivo”, il più delle volte approfittando del fatto che non sempre la natura della cosa comune permette – contemporaneamente – l’uso individuale di ciascun partecipante.
Orbene, se è pur vero, in generale, che l’utilizzo che il singolo fa della cosa comune non deve essere necessariamente proporzionato alla quota a ciascuno spettante, come accade ad esempio nel caso in cui gli altri contitolari non la utilizzano e consentono a chi fruisce anche di una quota minima di sfruttare il bene in tutta la sua estensione, tuttavia, l’articolo 1102 del Codice Civile precisa che il godimento dell’uno non può arrecare danno agli altri partecipanti ovvero impedire loro di parimenti utilizzarlo.
Un esempio concreto della regola sociale – purtroppo per lo più ignorata- per cui la libertà dell’uno finisce laddove inizia quella degli altri.

Dal racconto che mi avete fatto, è evidente che la Vostra quarta sorella non ha, allo stato, alcuna intenzione di comportarsi semplicemente quale comproprietaria, ma come unica proprietaria, un titolo che, con gli anni, se Voi glielo consentiste, potrebbe anche ottenere usucapendo la casa con un godimento esclusivo protratto e continuato (Cass. Civile sez. II 25 marzo 2009 n. 7221).
I rimedi per evitare che questo accada – a fronte della perpetrata ostinazione di Vostra sorella di non accettare un accordo che tenga conto delle esigenze di tutti i soggetti coinvolti – sono essenzialmente due.

Il primo, che, tuttavia, ritengo praticamente di impossibile attuazione pratica, sarebbe quello di accordarvi al fine di vendere le Vostre tre quote dell’immobile ad un terzo, che, in tal modo, comprerebbe ¾ della casa.
Nel quesito della missiva non è molto chiaro se l’acquisto del Vostro diritto di proprietà, ciascuna per il 25%, sia stato a titolo originario o derivativo.
Dal tenore del racconto in cui avete precisato che Vostra madre ha abitato nella casa di cui si discute in qualità di coniuge erede dopo la morte di Vostro padre, suppongo che si ricada nella seconda delle ridette ipotesi, e, quindi, che abbiate ereditato l’immobile di Vostro papà.
Se così fosse, prima di procedere, dovreste informare, con una raccomandata AR, Vostra sorella della Vostra intenzione di vendere e a quale prezzo, così da consentirle di poter esercitare il suo legittimo diritto di prelazione entro i due mesi previsti dalla legge, trascorsi i quali sareste libere di vendere ad estranei.
Tuttavia, non vedo davvero quale acquirente sarebbe interessato a comprare una porzione di immobile occupato, peraltro, da uno dei comproprietari che non intende andarsene!Si tratta, dunque, di una mera possibilità da manuale a mio avviso.

La possibilità, invece, che realmente avete per tutelarvi è quella di promuovere un giudizio di divisione del “bene della discordia” dinanzi al Tribunale competente, cui sarà coinvolta a partecipare anche la vostra quarta sorella.

La divisione dovrà avvenire, se possibile, in natura, cioè trasformando le quote ideali dei partecipanti in porzioni fisiche della cosa. Se il carattere del bene, tuttavia, non consentisse o rendesse scomoda la divisione in natura, si procederà all’assegnazione a uno dei partecipanti, interessato ad averlo, che corrisponderà agli altri il valore in danaro della loro quota; oppure, nell’ipotesi in cui nessuno dei comproprietari fosse interessato, si procederà alla sua vendita con conseguente ripartizione del ricavato.
In merito, preciso che è possibile, a meno che non intendiate assumere questa iniziativa immediatamente, con molta probabilità prima di iniziare il ridetto giudizio, che sia necessario esperire una procedura finalizzata a cercare di trovare un’intesa fra le parti, chiamata mediazione.
Il recente “Decreto del Fare”, approvato dal Governo Letta, ha, infatti, reintrodotto tale istituto nonostante la Corte Costituzionale, con sentenza del 06.12.2012 n° 272 , G.U. 12.12.2012, avesse dichiarato l’illegittimità costituzionale del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 nella parte in cui ne prevedeva il carattere obbligatorio per alcune materie, fra cui anche la divisione.
Mi esprimo in termini di mera probabilità in quanto tutti noi operatori di diritto siamo in attesa della Legge di conversione del richiamato decreto che ha preso come riferimento temporale proprio la legge di conversione per determinare l’operatività di tali novità (art. 84, comma II, Decreto legge 21 giugno 2013 n. 69, recante “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia).
Onestamente, portando la mia esperienza professionale, la mediazione, purtroppo, si risolve quasi sempre in un nulla di fatto, avendo come unico effetto quello di aumentare le lungaggini del sistema giustizia.

Se c’è una volontà conciliativa, infatti, l’accordo si può trovare ben prima di andare, a pagamento, davanti ad un mediatore. Diversamente, è assai improbabile che la parte che non ne vuole sapere di trovare un punto di incontro, si decida solo perché a chiederlo è un terzo, che non ha alcuna autorità di imporre alcunché.
Ma, detto questo, che costituisce solo lo sfogo di un professionista, stanco di dover spiegare ai clienti il motivo per cui le cause durano tempi irragionevoli, e tornando al Vostro caso, il mio consiglio è quello di rivolgervi immediatamente ad un Legale affinché rappresenti alla Vostra quarta sorella, magari con una prima lettera, la serietà delle Vostre intenzioni di veder tutelati i Vostri diritti di coeredi comproprietarie.
E’ possibile che questo determini una reazione da parte sua, il primo passo, si auspica, verso una definizione bonaria della vicenda, che potrebbe contemperare gli interessi di tutte. Ad esempio, se voi foste dell’avviso di considerare anche un’altra alternativa alla vendita, Vostra sorella potrebbe continuare ad abitare la casa e pagarvi un affitto, proporzionato naturalmente al fatto che ne è comproprietaria.
Se così non fosse, in ogni caso, come detto, lo strumento della divisione potrà garantirvi, con le “cattive”, di ottenere ciò che Vostra sorella si ostina ad ostacolare, e, cioè la vendita del bene.
Non solo.
Se vostra sorella, per tutto il periodo in cui il bene è rimasto in comunione, ne ha goduto in via esclusiva, senza un titolo giustificativo, dovrà corrispondervi i frutti civili dello stesso, quale ristoro della privazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, con riferimento ai prezzi di mercato correnti dal tempo della stima per la divisione a quello della pronuncia (Cass. 6 aprile 2011 n. 7881; Cass. Civile sez. II, 27 agosto 2012 n. 14652). Quindi dovrà “risarcirvi” in denaro il mancato uso del bene a causa della sua condotta contraria alla legge.

Per quanto concerne, infine , gli altri quesiti che avete posto alla mia attenzione, in linea generale, posso dirvi che i comproprietari devono partecipare, in misura proporzionale alla rispettiva quota, alle spese di gestione del bene comune, così come al pagamento delle imposte.
Mentre, per quel che riguarda le utenze, per evitare qualsivoglia tipo di problema, vi suggerisco di segnalare immediatamente l’avvenuto decesso di Vostra madre alle Società con cui la stessa aveva stipulato i relativi contratti, disdettandoli, informando, preventivamente, la vostra quarta sorella che procederete in tal senso nel rispetto della normativa.
Nonostante, infatti, siano tantissime le persone che, per i motivi più svariati, compresa la pigrizia, subentrano di fatto nelle utenze di cui risulta formalmente titolare un parente, spesso un genitore o un coniuge, venuto a mancare, è bene sapere che questa prassi non è lecita e, peraltro, attualmente, è anche oggetto di accertamenti poiché ostacola i controlli incrociati a fini fiscali.

Riconciliazione, divorzio e annullamento del matrimonio: diverse fattispecie a confronto

By Pubblicazioni

Pubblicato sul sito www.7giorni.info

Egregio Avvocato,
mio nipote è consensualmente separato da tre anni, ma due anni fa ha tentato una riconciliazione tornando ad abitare presso la moglie e quindi a risultare nuovamente residente presso di lei. Questo breve rientro presso la residenza della moglie implica una interruzione giuridica dei tre anni di separazione occorrenti per richiedere il divorzio? Inoltre, quale è la prassi con cui richiedere il divorzio? Che differenza c’è tra divorzio e annullamento? Se la moglie non dovesse concedere il divorzio, come potrebbe mio nipote provvedere? Se mio nipote non ha nessun bene economico da spartire con la moglie e percepisce uno stipendio inferiore a quello di lei, come è la normativa dell’assegno di mantenimento? Grazie.
Silvia

 

Gentile lettore,
nel prestare riscontro alla Sua gentile domanda, Le segnalo, che per poter fornire una risposta completa sarebbe necessario conoscere nel dettaglio il contenuto del contratto di abbonamento annuale da Lei sottoscritto con la palestra in questione, nonché il contenuto dell’eventuale regolamento al quale Lei ha aderito sottoscrivendo l’abbonamento.
Fermo restando quanto sopra, ad ogni modo, cercherò di rispondere al quesito ragionando per ipotesi. Se il contratto e/o il regolamento da Lei sottoscritti prevedono degli orari predeterminati di apertura e di chiusura della palestra nei giorni feriali, ma con una clausola – come di regola avviene – in cui la direzione della palestra si riserva la facoltà di apportare eventuali modifiche agli orari di apertura e chiusura a propria insindacabile discrezione, le lamentate chiusure del 24 e de 31 dicembre non hanno comportato la violazione di alcun obbligo da parte della palestra e, conseguentemente la violazione di alcun diritto per gli utenti della palestra.
Diversamente, nell’ipotesi in cui le clausole del contratto e del regolamento da Lei sottoscritti prevedano a carico della struttura un obbligo di apertura in tutti i giorni feriali dell’anno, nessuno escluso, senza possibilità per la palestra di modificare e/o cambiare i giorni di apertura e/o gli orari, la palestra si è resa inadempiente perché è venuta meno ad uno degli obblighi contrattuali assunti. A questo punto, a mio parere, Lei potrebbe chiedere alla palestra una sorta di “indennizzo” per non aver potuto usufruire dei servizi cui aveva diritto (e per i quali ha versato la quota di abbonamento annuale) nei giorni di sospensione dell’apertura unilateralmente imposti dalla direzione della palestra stessa.
Le segnalo, inoltre, che la fattispecie che ci occupa ha ad oggetto un contratto a prestazioni corrispettive e, dunque, secondo quanto stabilito dall’art. 1453 del Codice Civile in caso di inadempimento di una parte l’altra può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo in ogni caso, il risarcimento del danno. In ogni caso il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra. Ai fini della risoluzione non è sufficiente che una delle parti del contratto sia semplicemente inadempiente: non ogni imprecisione, ancorché minima, rispetto al programma degli impegni contrattuali conduce alla praticabilità del rimedio in esame. L’art. 1455  cod.civ. infatti precisa che l’inadempimento deve essere di non scarsa importanza alla stregua dell’interesse della parte che lo subisce. Tuttavia non mi pare che nel suo caso si possa profilare l’ipotesi della possibilità di risolvere il contratto, tenuto conto che le chiusure del 24 e del 31 dicembre, ovvero di soli due giorni prefestivi nell’arco di un anno solare, difficilmente potrebbero rappresentare un inadempimento di rilevante importanza.
E, ancora, nel contratto potrebbe essere stata prevista una clausola risolutiva espressa, ovvero potrebbe essere stato previsto che il contratto si risolva nel caso in cui una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. Se così fosse, e se fosse stata prevista la clausola risolutiva espressa per il mancato rispetto da parte della palestra dei giorni e degli orari di apertura, la risoluzione in tal caso si verificherebbe di diritto nel momento in cui Lei comunica per iscritto alla palestra che intende avvalersi di detta clausola risolutiva.
Per quanto concerne, invece, la questione relativa al mutamento della palestra da Associazione Sportiva dilettantistica a Società sportiva dilettantistica, anzitutto evidenzio che nel nostro ordinamento nel caso di sport dilettantistico, i sodalizi sportivi possono organizzarsi in una delle seguenti tre forme: 1) associazione sportiva priva di responsabilità giuridica, disciplinata dagli artt. 36 e segg. cod. civ.; 2) associazione sportiva con personalità giuridica di diritto privato, ai sensi del regolamento di cui al D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361; 3) società sportiva di capitali o cooperativa, costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro.
La differenza sostanziale tra Associazione (non riconosciuta) e Società Sportiva – con personalità giuridica – è sita nella responsabilità degli amministratori nei confronti dei terzi creditori. Nella Società sportiva l’elemento fondante è il capitale finanziario; quindi la responsabilità e’ limitata al patrimonio sociale, a differenza delle associazioni non riconosciute dove gli amministratori rispondono solidalmente anche con il patrimonio personale per i debiti dell’associazione.
L’associazione sportiva dilettantistica non riconosciuta ha una gestione amministrativo/contabile piuttosto “snella”. Non è richiesta una forma particolare per l’atto costitutivo. È molto importante, nel settore sportivo dilettantistico, la valutazione della variabile fiscale in quanto molte agevolazioni richiedono la presenza di determinati prerequisiti che devono sussistere già in fase di costituzione: uno di questi requisiti è la redazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata.
La società di capitali sportiva dilettantistica è una figura giuridica normata dall’art. 90 legge n. 289/2002. È stato osservato che si tratta di «una nuova tipologia di società di capitali che si caratterizza per le finalità non lucrative e che si inserisce nell’ordinamento giuridico come una peculiare categoria di soggetti societari. La società di capitali sportiva dilettantistica è, infatti, costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro. Tale forma giuridica può essere la naturale “evoluzione” di un sodalizio sportivo dilettantistico nato come semplice associazione tra pochi soci, senza strutture patrimoniali, ma che, con adesioni di nuovi soci e con l’ampliarsi delle esigenze dell’attività sportiva svolta, non può più essere gestito tramite le semplici forme amministrative/gestionali dell’associazione. L’incrementarsi di tali attività sportive comporta la movimentazione di disponibilità finanziarie di una certa consistenza, nonché eventuali problematiche di responsabilità civili in caso di eventi dannosi. In tali ipotesi, una forma giuridica quale quella della società di capitali appare più adeguata di quella dell’associazione non riconosciuta.

Gentile Silvia,

avevo già avuto modo di affrontare una vicenda per certi tratti simile a quella di Suo nipote nelle risposte fornite – e sempre con la collaborazione della collega di studio Avv. Simona Tesolin – ai lettori Mario e Francesco che può ritrovare in questa rubrica rispettivamente negli articoli del 29.08.2012 e del 02.03.2012.

In particolar modo nella prima delle due risposte appena richiamate, veniva inquadrata a livello normativo l’ipotesi della “riconciliazione fra coniugi” prevista dagli artt. 154 e 157 del Codice Civile e venivano esaminate, altresì, alcune fra le diverse ipotesi di riavvicinamento trattate, nel corso degli anni, dalla giurisprudenza, precisando quali fossero state riconosciute come idonee ad interrompere lo stato di separazione triennale necessario per la pronuncia dello scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio (o meglio: del divorzio) previsto dall’art. 3, n. 2 lettera b) della Legge 1 dicembre 1970 n. 898 (e successive modifiche).
Secondo i Giudici della Suprema Corte, perché ricorra un’ipotesi di riconciliazione è indispensabile una chiara ed effettiva volontà di restaurare una vita insieme, che deve manifestarsi con elementi esteriori oggettivi e accertabili che prevalgono sulla sfera dei sentimenti: non basta, infatti, la convinzione e il sentimento di uno dei due coniugi, ma è necessario un comportamento concludente, perdurante e inequivocabile da parte di entrambi alla ricostituzione della comunione coniugale (Cass. Civ. Sez. I, 01 agosto 2008 n. 21001; Cass. Civ. Sez. I, 25 maggio 2007 n. 12314).

Sulla scia di questo insegnamento di carattere generale, si chiariva che la mera ripresa della convivenza, in via sperimentale e per un breve periodo, pur possedendo un innegabile valore presuntivo, non è stata ritenuta dalla giurisprudenza sufficiente, di per sé, a concretare un’ipotesi di riconciliazione (Corte Appello Roma, 16 marzo 2011 n. 1148; Tribunale di Trani, 03 agosto 2007 n. 620; Cass. Civ. Sez. I, 06 ottobre 2005 n. 19497), essendo necessaria la sussistenza – congiuntamente – di comportamenti tali da far oggettivamente presumere la volontà di ricostruire il nucleo originario familiare (ravvisabili, ad esempio, nella coabitazione, nella pratica di rapporti sessuali, nel ricevimento insieme di amici comuni nella propria abitazione, nelle visite insieme agli amici, nel soggiorno insieme in località di vacanza, nel fine settimana, nelle preoccupazioni e le attenzioni per l’altro coniuge).

Orbene, nella sua lettera, l’unico elemento che si coglie con chiarezza è la brevità temporale del riavvicinamento fra suo nipote e la sua ex moglie, che, tuttavia – ammette – vi era stato per tentare effettivamente una riconciliazione.

Non è, invece, altrettanto chiaro come questo riavvicinamento si sia manifestato, nei rapporti interni fra i coniugi e anche nei confronti di terzi.

Pertanto, fermo restando che, comunque, fattispecie di questo genere sono sempre rimesse alla discrezionale valutazione del singolo caso da parte del Giudice investito della questione, non ho sufficienti elementi per fornirLe una risposta puntuale.

In generale posso dirLe che se ravvisa, dalle indicazioni che Le ho dato, che una riconciliazione giuridicamente rilevante vi è stata, la soluzione sarebbe quella di iniziare nuovamente le pratiche di separazione. Diversamente, se Suo nipote decidesse di iniziare, comunque, una procedura per ottenere il divorzio dovrebbe affidarsi ad un legale, il quale dovrebbe redigere e depositare un ricorso presso il Tribunale territorialmente competente producendo il provvedimento dell’Autorità Giudiziaria (sentenza o decreto di omologazione della separazione) attestante il decorso dei tre anni previsto dalla legge.

Sarebbe, poi, onere della moglie separata, nel caso in cui si rifiutasse di “concederlo”, dimostrare la cessazione o l’interruzione dello stato di separazione e, infine, spetterebbe, al Giudice di merito, di fronte ad un’eventuale eccezione in tal senso, l’accertamento o meno del ripristino del consorzio familiare.

Nel caso in cui il Giudice dovesse ritenere che una riconciliazione effettivamente vi è stata, sarebbe necessario iniziare nuovamente le pratiche per la separazione.

Nel caso in cui, invece, o la moglie separata non dovesse eccepire che, nelle more della separazione, vi sia stata una riconciliazione ovvero il Giudice dovesse ritenere che il temporaneo riavvicinamento non può ritenersi tale, Suo nipote otterrà serenamente il divorzio, indipendentemente dalla volontà dell’altro coniuge, attraverso una sentenza del Tribunale che accerterà e dichiarerà lo scioglimento e/o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, assumendo, altresì, se necessario, i provvedimenti relativi ai rapporti patrimoniali fra i coniugi e nei confronti della prole.

Da quanto mi scrive, mi pare di intuire che Suo nipote non abbia avuto figli, pertanto, l’unico aspetto da considerare sarebbe l’eventuale diritto di uno dei due coniugi ad un assegno divorzile.

Nel caso di Suo nipote, sarebbe importante verificare anche quelle che sono state le condizioni di separazione, nonché se vi sia – e in che termini – sperequazione fra la sua situazione economica e quella di sua moglie. Tuttavia, in generale, quando entrambi i coniugi percepiscono un reddito proprio e hanno la possibilità di provvedere al loro sostentamento in maniera adeguata al tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio, tale diritto non viene riconosciuto e nessuno deve nulla all’altro a titolo di mantenimento.

Diversa, invece, sarebbe l’ipotesi dell’annullamento del matrimonio che, in parole povere, si distingue dal divorzio in quanto mentre quest’ultimo mette la parola fine ad un vincolo coniugale che, quando è sorto era giuridicamente efficace e lo è stato fino al suo scioglimento; l’annullamento invece mina, all’origine, la validità del matrimonio stesso.

Un’alternativa che potrebbe sembrare, in prima battuta, allettante, soprattutto se si considera che l’annullamento sottrae i coniugi agli oneri che comporta, in molti casi, il divorzio, primo fra tutti quello di dover mantenere – anche a vita – il coniuge economicamente più debole, visto che la rigorosa conseguenza dell’annullamento di un matrimonio dovrebbe essere questa: i coniugi dovrebbero considerarsi come se non fossero mai stati uniti dal vincolo coniugale ed i figli come illegittimi.

La legge, tuttavia, tempera questo rigore, prevedendo, ad esempio, che i figli siano comunque considerati figli legittimi (salvo il caso di bigamia o incesto), ovvero nel caso in cui entrambi i coniugi erano in buona fede al momento della celebrazione, che il matrimonio produca i suoi effetti fino alla sentenza che dichiara la nullità, nonché che al coniuge più debole economicamente possa essere garantito un mantenimento (seppur per un periodo non superiore a tre anni); ancora, in caso di buona fede di uno dei due coniugi e di malafede dell’altro, il Codice Civile sancisce che quest’ultimo riconosca una congrua indennità al primo, che dovrà comprendere, comunque, una somma corrispondente al mantenimento per tre anni.

A tal proposito si ricorda una recente sentenza della Corte di Cassazione Civile, sezione I, n. 9484 del 18 gennaio 2013, con la quale è stato statuito che il matrimonio civile può essere annullato nel caso in cui uno dei due coniugi non abbia comunicato all’altro la propria devianza sessuale, la quale, manifestandosi anche in un momento successivo, renda impossibile lo svolgimento di un normale rapporto di coppia. In tal caso, al coniuge “ingannato” è stata riconosciuta un’indennità e anche un assegno periodico di mantenimento.

Ad ogni buon conto, i vantaggi, comunque, correlati ad una sentenza di annullamento del matrimonio rispetto al divorzio, nel tempo, hanno attirato l’attenzione di molti, dando luogo a una moltitudine di richieste in tal senso, molte delle quali, tuttavia, sono state respinte dalle Autorità competenti, che, spesso, le hanno considerate dei meri escamotages.

L’annullamento del matrimonio, infatti, può essere concesso dal Tribunale, solo se ricorrono precisi ed eccezionali motivi e presupposti previsti o dalla legge civile, ovvero anche dal codice canonico, nel caso di matrimonio concordatario.

Si tratta di una materia che assume molteplici sfaccettature a seconda del tipo di rito con cui è stato celebrato il matrimonio, che è impossibile trattare in questa occasione poiché si creerebbe troppa confusione di concetti, ma che sarebbe molto interessante affrontare qualora qualche lettore dovesse sottoporre alla nostra attenzione la sua esperienza, dandoci in questo modo dei punti di riferimento da cui partire.

Trasferimento a richiesta del lavoratore

By Pubblicazioni

Pubblicato sul sito www.7giorni.info

Egregio Avvocato,
volevo chiederLe un parere in merito a una situazione che si è presentata sul mio posto di lavoro. Sono un dipendente dell’Azienda Sanitaria Materana, lavoro a 70 km dalla mia residenza e viaggio tutti i giorni, la mia mansione è caldaista. L’altro giorno un collega (caldaista) si è messo in aspettativa per via della L. 104; questo mio collega lavorava presso il presidio ubicato nel mio paese di residenza. Si è venuto a creare un posto vacante e quindi da ricoprire. Questo posto è stato assegnato ad un altro dipendente (non caldaista e che viaggiava come me tutti i giorni), che mi ha strappato quel trasferimento richiesto ormai da tantissimi anni.
Sono convinto che questo trasferimento sia stato ottenuto con delle “conoscenze”.
Volevo sapere in che modo posso muovermi per reclamare ciò che di diritto dovrebbe spettarmi, poiché io sono un operaio specializzato e il posto che era vacante corrispondeva al mio profilo lavorativo.
Salvatore

 

Gentile lettore,
nel prestare riscontro alla Sua gentile domanda, Le segnalo, che per poter fornire una risposta completa sarebbe necessario conoscere nel dettaglio il contenuto del contratto di abbonamento annuale da Lei sottoscritto con la palestra in questione, nonché il contenuto dell’eventuale regolamento al quale Lei ha aderito sottoscrivendo l’abbonamento.
Fermo restando quanto sopra, ad ogni modo, cercherò di rispondere al quesito ragionando per ipotesi. Se il contratto e/o il regolamento da Lei sottoscritti prevedono degli orari predeterminati di apertura e di chiusura della palestra nei giorni feriali, ma con una clausola – come di regola avviene – in cui la direzione della palestra si riserva la facoltà di apportare eventuali modifiche agli orari di apertura e chiusura a propria insindacabile discrezione, le lamentate chiusure del 24 e de 31 dicembre non hanno comportato la violazione di alcun obbligo da parte della palestra e, conseguentemente la violazione di alcun diritto per gli utenti della palestra.
Diversamente, nell’ipotesi in cui le clausole del contratto e del regolamento da Lei sottoscritti prevedano a carico della struttura un obbligo di apertura in tutti i giorni feriali dell’anno, nessuno escluso, senza possibilità per la palestra di modificare e/o cambiare i giorni di apertura e/o gli orari, la palestra si è resa inadempiente perché è venuta meno ad uno degli obblighi contrattuali assunti. A questo punto, a mio parere, Lei potrebbe chiedere alla palestra una sorta di “indennizzo” per non aver potuto usufruire dei servizi cui aveva diritto (e per i quali ha versato la quota di abbonamento annuale) nei giorni di sospensione dell’apertura unilateralmente imposti dalla direzione della palestra stessa.
Le segnalo, inoltre, che la fattispecie che ci occupa ha ad oggetto un contratto a prestazioni corrispettive e, dunque, secondo quanto stabilito dall’art. 1453 del Codice Civile in caso di inadempimento di una parte l’altra può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo in ogni caso, il risarcimento del danno. In ogni caso il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra. Ai fini della risoluzione non è sufficiente che una delle parti del contratto sia semplicemente inadempiente: non ogni imprecisione, ancorché minima, rispetto al programma degli impegni contrattuali conduce alla praticabilità del rimedio in esame. L’art. 1455  cod.civ. infatti precisa che l’inadempimento deve essere di non scarsa importanza alla stregua dell’interesse della parte che lo subisce. Tuttavia non mi pare che nel suo caso si possa profilare l’ipotesi della possibilità di risolvere il contratto, tenuto conto che le chiusure del 24 e del 31 dicembre, ovvero di soli due giorni prefestivi nell’arco di un anno solare, difficilmente potrebbero rappresentare un inadempimento di rilevante importanza.
E, ancora, nel contratto potrebbe essere stata prevista una clausola risolutiva espressa, ovvero potrebbe essere stato previsto che il contratto si risolva nel caso in cui una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. Se così fosse, e se fosse stata prevista la clausola risolutiva espressa per il mancato rispetto da parte della palestra dei giorni e degli orari di apertura, la risoluzione in tal caso si verificherebbe di diritto nel momento in cui Lei comunica per iscritto alla palestra che intende avvalersi di detta clausola risolutiva.
Per quanto concerne, invece, la questione relativa al mutamento della palestra da Associazione Sportiva dilettantistica a Società sportiva dilettantistica, anzitutto evidenzio che nel nostro ordinamento nel caso di sport dilettantistico, i sodalizi sportivi possono organizzarsi in una delle seguenti tre forme: 1) associazione sportiva priva di responsabilità giuridica, disciplinata dagli artt. 36 e segg. cod. civ.; 2) associazione sportiva con personalità giuridica di diritto privato, ai sensi del regolamento di cui al D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361; 3) società sportiva di capitali o cooperativa, costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro.
La differenza sostanziale tra Associazione (non riconosciuta) e Società Sportiva – con personalità giuridica – è sita nella responsabilità degli amministratori nei confronti dei terzi creditori. Nella Società sportiva l’elemento fondante è il capitale finanziario; quindi la responsabilità e’ limitata al patrimonio sociale, a differenza delle associazioni non riconosciute dove gli amministratori rispondono solidalmente anche con il patrimonio personale per i debiti dell’associazione.
L’associazione sportiva dilettantistica non riconosciuta ha una gestione amministrativo/contabile piuttosto “snella”. Non è richiesta una forma particolare per l’atto costitutivo. È molto importante, nel settore sportivo dilettantistico, la valutazione della variabile fiscale in quanto molte agevolazioni richiedono la presenza di determinati prerequisiti che devono sussistere già in fase di costituzione: uno di questi requisiti è la redazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata.
La società di capitali sportiva dilettantistica è una figura giuridica normata dall’art. 90 legge n. 289/2002. È stato osservato che si tratta di «una nuova tipologia di società di capitali che si caratterizza per le finalità non lucrative e che si inserisce nell’ordinamento giuridico come una peculiare categoria di soggetti societari. La società di capitali sportiva dilettantistica è, infatti, costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro. Tale forma giuridica può essere la naturale “evoluzione” di un sodalizio sportivo dilettantistico nato come semplice associazione tra pochi soci, senza strutture patrimoniali, ma che, con adesioni di nuovi soci e con l’ampliarsi delle esigenze dell’attività sportiva svolta, non può più essere gestito tramite le semplici forme amministrative/gestionali dell’associazione. L’incrementarsi di tali attività sportive comporta la movimentazione di disponibilità finanziarie di una certa consistenza, nonché eventuali problematiche di responsabilità civili in caso di eventi dannosi. In tali ipotesi, una forma giuridica quale quella della società di capitali appare più adeguata di quella dell’associazione non riconosciuta.

Gentile Signor Salvatore,

nel prestare riscontro alla Sua cortese domanda, Le segnalo, anzitutto, che in questa rubrica su 7giorni ho già avuto modo di approfondire – unitamente all’avv. Ilaria Donini giuslavorista dello studio – il tema relativo al trasferimento negli articoli pubblicati il 15 gennaio 2012 e il 25 giugno 2012, ai quali La rimando per quanto concerne la disciplina generale della fattispecie del trasferimento disposto dal datore di lavoro, rispetto al quale il dipendente, ha un interesse oppositivo, volto a conservare la sede di lavoro presso la quale è invece già assegnato.

Come potrà notare negli articoli citati venivano esaminate ipotesi in cui il datore di lavoro, nell’ambito del proprio potere direzionale, decideva unilateralmente di far svolgere al dipendente la prestazione di lavoro in luogo diverso rispetto a quello indicato nel contratto di lavoro, attraverso l’adozione di un provvedimento di assegnazione del lavoratore ad altra sede di lavoro, senza limitazione di tempo.

In tali casi, al fine di stabilire la legittimità dell’atto di trasferimento concretamente attuato dal datore di lavoro, come ampiamente evidenziato, deve essere valutata la sussistenza o meno delle condizioni che, in base alla Legge, consentono al datore di lavoro di assumere tale provvedimento.

La situazione da Lei descritta, invece, riguarda l’ipotesi opposta, ovvero, la richiesta da parte del lavoratore ad essere trasferito presso una nuova sede di lavoro (nella specie più vicina a quella di residenza) e il rifiuto del datore di lavoro ad adottare il provvedimento di trasferimento richiesto. Nel suo caso, in particolare, si tratta di un trasferimento “a richiesta” da parte di dipendente di pubblica amministrazione  e, per quanto è dato capire dal contenuto del suo quesito, di un trasferimento “a richiesta” nell’ambito della medesima pubblica amministrazione o ente di appartenenza (nella situazione specifica nell’ambito della medesima azienda sanitaria).

Quindi il trasferimento de quo rappresenta l’espressione di un suo interesse pretensivo ad una nuova sede di lavoro, diversa rispetto a quella indicata nel contratto di lavoro subordinato in essere.
A tale riguardo, in primis, va chiarito che non vi è un diritto del lavoratore ad essere trasferito a seguito di propria richiesta, infatti tale richiesta di trasferimento non configura un diritto vero e proprio in capo al dipendente pubblico, ma al più un interesse legittimo, se non addirittura una mera aspettativa, che sarà oggetto di valutazione discrezionale da parte della pubblica amministrazione.

Il trasferimento rientra nel normale esercizio del potere direttivo del datore di lavoro. Tale potere datoriale è sottoposto alle condizioni previste dall’art. 2103, la cui applicazione prevede che il lavoratore possa essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra solo per comprovate ragioni tecniche produttive e organizzative. Tale norma, posta a tutela del lavoratore, affinché lo stessa non venga esposto ad abusi datoriali, ha una portata diversa nell’ipotesi in cui sia il dipendente a chiedere di essere trasferito. In tale ipotesi, infatti, la norma trova applicazione sottoforma di valutazione da parte del datore di lavoro dell’idoneità del trasferimento del dipendente a soddisfare tali esigenze.

Quanto alla fattispecie del trasferimento “a richiesta”, in linea generale, la relativa concessione al dipendente  resta condizionata alla valutazione del datore di lavoro e, tale valutazione, presenta ampi margini di discrezionalità, sebbene ciò non possa sfociare in una discriminazione del lavoratore.
Nell’ambito del rapporto pubblico, peraltro, il datore di lavoro deve agire con imparzialità e buon andamento e ciò implica che nella riallocazione delle risorse di personale all’interno della medesima amministrazione sussiste anche l’obbligo del rispetto delle procedure previste dalla Legge e dal contratto collettivo applicato. Gli atti con i quali la Pubblica Amministrazione dispone i trasferimenti volontari hanno natura di atti privatistici e sono soggetti a sindacato in base ai canoni di buona fede e correttezza (Cfr. Tribunale di Lanciano 16.4.2002).

In ogni caso la scelta di coprire un determinato posto vacante con il trasferimento resta rimessa alla volontà datoriale, e anche la configurabilità di un principio generale di imparzialità, di correttezza e di buona fede non comporta la nascita dell’obbligo datoriale di provvedere sull’istanza di trasferimento del privato.

A tale proposito si osserva che alcuni contratti collettivi prevedono l’obbligo dell’ente di pubblicazione dei posti vacanti, con cadenza prefissata, mediante apposito bando nel quale sono indicati i posti vacanti da coprire attraverso trasferimento del personale in servizio e sono fissati il termine e le modalità di presentazione delle domande degli aspiranti.

Ad ogni modo si osserva che (a meno che non ricorrano le condizioni di cui all’art. 21 e 33 della Legge 104/92, ovvero ipotesi del dipendente portatore di handicap) nessuna norma dell’ordinamento attribuisce al dipendente pubblico (così come neppure al dipendente privato) un diritto soggettivo di lavorare in una sede di lavoro diversa a quella alla quale è stato assegnato.

In sostanza, in relazione al trasferimento, si può affermare che il lavoratore dipendente vede tutelati (art. 2103 c.c.) solo i propri interessi oppositivi e non anche quelli pretensivi: il lavoratore dipendente pubblico o privato che sia, ha diritto a non essere trasferito salvo che ricorrano le condizioni previste dalla Legge, mentre è escluso che egli possa vantare un diritto a scegliere una sede di lavoro diversa da quella presso la quale presta attività lavorativa.