Pubblicato sul sito www.7giorni.info
Egregio Avvocato,
mio nipote è consensualmente separato da tre anni, ma due anni fa ha tentato una riconciliazione tornando ad abitare presso la moglie e quindi a risultare nuovamente residente presso di lei. Questo breve rientro presso la residenza della moglie implica una interruzione giuridica dei tre anni di separazione occorrenti per richiedere il divorzio? Inoltre, quale è la prassi con cui richiedere il divorzio? Che differenza c’è tra divorzio e annullamento? Se la moglie non dovesse concedere il divorzio, come potrebbe mio nipote provvedere? Se mio nipote non ha nessun bene economico da spartire con la moglie e percepisce uno stipendio inferiore a quello di lei, come è la normativa dell’assegno di mantenimento? Grazie.
Silvia
nel prestare riscontro alla Sua gentile domanda, Le segnalo, che per poter fornire una risposta completa sarebbe necessario conoscere nel dettaglio il contenuto del contratto di abbonamento annuale da Lei sottoscritto con la palestra in questione, nonché il contenuto dell’eventuale regolamento al quale Lei ha aderito sottoscrivendo l’abbonamento.
Fermo restando quanto sopra, ad ogni modo, cercherò di rispondere al quesito ragionando per ipotesi. Se il contratto e/o il regolamento da Lei sottoscritti prevedono degli orari predeterminati di apertura e di chiusura della palestra nei giorni feriali, ma con una clausola – come di regola avviene – in cui la direzione della palestra si riserva la facoltà di apportare eventuali modifiche agli orari di apertura e chiusura a propria insindacabile discrezione, le lamentate chiusure del 24 e de 31 dicembre non hanno comportato la violazione di alcun obbligo da parte della palestra e, conseguentemente la violazione di alcun diritto per gli utenti della palestra.
Diversamente, nell’ipotesi in cui le clausole del contratto e del regolamento da Lei sottoscritti prevedano a carico della struttura un obbligo di apertura in tutti i giorni feriali dell’anno, nessuno escluso, senza possibilità per la palestra di modificare e/o cambiare i giorni di apertura e/o gli orari, la palestra si è resa inadempiente perché è venuta meno ad uno degli obblighi contrattuali assunti. A questo punto, a mio parere, Lei potrebbe chiedere alla palestra una sorta di “indennizzo” per non aver potuto usufruire dei servizi cui aveva diritto (e per i quali ha versato la quota di abbonamento annuale) nei giorni di sospensione dell’apertura unilateralmente imposti dalla direzione della palestra stessa.
Le segnalo, inoltre, che la fattispecie che ci occupa ha ad oggetto un contratto a prestazioni corrispettive e, dunque, secondo quanto stabilito dall’art. 1453 del Codice Civile in caso di inadempimento di una parte l’altra può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo in ogni caso, il risarcimento del danno. In ogni caso il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra. Ai fini della risoluzione non è sufficiente che una delle parti del contratto sia semplicemente inadempiente: non ogni imprecisione, ancorché minima, rispetto al programma degli impegni contrattuali conduce alla praticabilità del rimedio in esame. L’art. 1455 cod.civ. infatti precisa che l’inadempimento deve essere di non scarsa importanza alla stregua dell’interesse della parte che lo subisce. Tuttavia non mi pare che nel suo caso si possa profilare l’ipotesi della possibilità di risolvere il contratto, tenuto conto che le chiusure del 24 e del 31 dicembre, ovvero di soli due giorni prefestivi nell’arco di un anno solare, difficilmente potrebbero rappresentare un inadempimento di rilevante importanza.
E, ancora, nel contratto potrebbe essere stata prevista una clausola risolutiva espressa, ovvero potrebbe essere stato previsto che il contratto si risolva nel caso in cui una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. Se così fosse, e se fosse stata prevista la clausola risolutiva espressa per il mancato rispetto da parte della palestra dei giorni e degli orari di apertura, la risoluzione in tal caso si verificherebbe di diritto nel momento in cui Lei comunica per iscritto alla palestra che intende avvalersi di detta clausola risolutiva.
Per quanto concerne, invece, la questione relativa al mutamento della palestra da Associazione Sportiva dilettantistica a Società sportiva dilettantistica, anzitutto evidenzio che nel nostro ordinamento nel caso di sport dilettantistico, i sodalizi sportivi possono organizzarsi in una delle seguenti tre forme: 1) associazione sportiva priva di responsabilità giuridica, disciplinata dagli artt. 36 e segg. cod. civ.; 2) associazione sportiva con personalità giuridica di diritto privato, ai sensi del regolamento di cui al D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361; 3) società sportiva di capitali o cooperativa, costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro.
La differenza sostanziale tra Associazione (non riconosciuta) e Società Sportiva – con personalità giuridica – è sita nella responsabilità degli amministratori nei confronti dei terzi creditori. Nella Società sportiva l’elemento fondante è il capitale finanziario; quindi la responsabilità e’ limitata al patrimonio sociale, a differenza delle associazioni non riconosciute dove gli amministratori rispondono solidalmente anche con il patrimonio personale per i debiti dell’associazione.
L’associazione sportiva dilettantistica non riconosciuta ha una gestione amministrativo/contabile piuttosto “snella”. Non è richiesta una forma particolare per l’atto costitutivo. È molto importante, nel settore sportivo dilettantistico, la valutazione della variabile fiscale in quanto molte agevolazioni richiedono la presenza di determinati prerequisiti che devono sussistere già in fase di costituzione: uno di questi requisiti è la redazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata.
La società di capitali sportiva dilettantistica è una figura giuridica normata dall’art. 90 legge n. 289/2002. È stato osservato che si tratta di «una nuova tipologia di società di capitali che si caratterizza per le finalità non lucrative e che si inserisce nell’ordinamento giuridico come una peculiare categoria di soggetti societari. La società di capitali sportiva dilettantistica è, infatti, costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro. Tale forma giuridica può essere la naturale “evoluzione” di un sodalizio sportivo dilettantistico nato come semplice associazione tra pochi soci, senza strutture patrimoniali, ma che, con adesioni di nuovi soci e con l’ampliarsi delle esigenze dell’attività sportiva svolta, non può più essere gestito tramite le semplici forme amministrative/gestionali dell’associazione. L’incrementarsi di tali attività sportive comporta la movimentazione di disponibilità finanziarie di una certa consistenza, nonché eventuali problematiche di responsabilità civili in caso di eventi dannosi. In tali ipotesi, una forma giuridica quale quella della società di capitali appare più adeguata di quella dell’associazione non riconosciuta.
Gentile Silvia,
avevo già avuto modo di affrontare una vicenda per certi tratti simile a quella di Suo nipote nelle risposte fornite – e sempre con la collaborazione della collega di studio Avv. Simona Tesolin – ai lettori Mario e Francesco che può ritrovare in questa rubrica rispettivamente negli articoli del 29.08.2012 e del 02.03.2012.
In particolar modo nella prima delle due risposte appena richiamate, veniva inquadrata a livello normativo l’ipotesi della “riconciliazione fra coniugi” prevista dagli artt. 154 e 157 del Codice Civile e venivano esaminate, altresì, alcune fra le diverse ipotesi di riavvicinamento trattate, nel corso degli anni, dalla giurisprudenza, precisando quali fossero state riconosciute come idonee ad interrompere lo stato di separazione triennale necessario per la pronuncia dello scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio (o meglio: del divorzio) previsto dall’art. 3, n. 2 lettera b) della Legge 1 dicembre 1970 n. 898 (e successive modifiche).
Secondo i Giudici della Suprema Corte, perché ricorra un’ipotesi di riconciliazione è indispensabile una chiara ed effettiva volontà di restaurare una vita insieme, che deve manifestarsi con elementi esteriori oggettivi e accertabili che prevalgono sulla sfera dei sentimenti: non basta, infatti, la convinzione e il sentimento di uno dei due coniugi, ma è necessario un comportamento concludente, perdurante e inequivocabile da parte di entrambi alla ricostituzione della comunione coniugale (Cass. Civ. Sez. I, 01 agosto 2008 n. 21001; Cass. Civ. Sez. I, 25 maggio 2007 n. 12314).
Sulla scia di questo insegnamento di carattere generale, si chiariva che la mera ripresa della convivenza, in via sperimentale e per un breve periodo, pur possedendo un innegabile valore presuntivo, non è stata ritenuta dalla giurisprudenza sufficiente, di per sé, a concretare un’ipotesi di riconciliazione (Corte Appello Roma, 16 marzo 2011 n. 1148; Tribunale di Trani, 03 agosto 2007 n. 620; Cass. Civ. Sez. I, 06 ottobre 2005 n. 19497), essendo necessaria la sussistenza – congiuntamente – di comportamenti tali da far oggettivamente presumere la volontà di ricostruire il nucleo originario familiare (ravvisabili, ad esempio, nella coabitazione, nella pratica di rapporti sessuali, nel ricevimento insieme di amici comuni nella propria abitazione, nelle visite insieme agli amici, nel soggiorno insieme in località di vacanza, nel fine settimana, nelle preoccupazioni e le attenzioni per l’altro coniuge).
Orbene, nella sua lettera, l’unico elemento che si coglie con chiarezza è la brevità temporale del riavvicinamento fra suo nipote e la sua ex moglie, che, tuttavia – ammette – vi era stato per tentare effettivamente una riconciliazione.
Non è, invece, altrettanto chiaro come questo riavvicinamento si sia manifestato, nei rapporti interni fra i coniugi e anche nei confronti di terzi.
Pertanto, fermo restando che, comunque, fattispecie di questo genere sono sempre rimesse alla discrezionale valutazione del singolo caso da parte del Giudice investito della questione, non ho sufficienti elementi per fornirLe una risposta puntuale.
In generale posso dirLe che se ravvisa, dalle indicazioni che Le ho dato, che una riconciliazione giuridicamente rilevante vi è stata, la soluzione sarebbe quella di iniziare nuovamente le pratiche di separazione. Diversamente, se Suo nipote decidesse di iniziare, comunque, una procedura per ottenere il divorzio dovrebbe affidarsi ad un legale, il quale dovrebbe redigere e depositare un ricorso presso il Tribunale territorialmente competente producendo il provvedimento dell’Autorità Giudiziaria (sentenza o decreto di omologazione della separazione) attestante il decorso dei tre anni previsto dalla legge.
Sarebbe, poi, onere della moglie separata, nel caso in cui si rifiutasse di “concederlo”, dimostrare la cessazione o l’interruzione dello stato di separazione e, infine, spetterebbe, al Giudice di merito, di fronte ad un’eventuale eccezione in tal senso, l’accertamento o meno del ripristino del consorzio familiare.
Nel caso in cui il Giudice dovesse ritenere che una riconciliazione effettivamente vi è stata, sarebbe necessario iniziare nuovamente le pratiche per la separazione.
Nel caso in cui, invece, o la moglie separata non dovesse eccepire che, nelle more della separazione, vi sia stata una riconciliazione ovvero il Giudice dovesse ritenere che il temporaneo riavvicinamento non può ritenersi tale, Suo nipote otterrà serenamente il divorzio, indipendentemente dalla volontà dell’altro coniuge, attraverso una sentenza del Tribunale che accerterà e dichiarerà lo scioglimento e/o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, assumendo, altresì, se necessario, i provvedimenti relativi ai rapporti patrimoniali fra i coniugi e nei confronti della prole.
Da quanto mi scrive, mi pare di intuire che Suo nipote non abbia avuto figli, pertanto, l’unico aspetto da considerare sarebbe l’eventuale diritto di uno dei due coniugi ad un assegno divorzile.
Nel caso di Suo nipote, sarebbe importante verificare anche quelle che sono state le condizioni di separazione, nonché se vi sia – e in che termini – sperequazione fra la sua situazione economica e quella di sua moglie. Tuttavia, in generale, quando entrambi i coniugi percepiscono un reddito proprio e hanno la possibilità di provvedere al loro sostentamento in maniera adeguata al tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio, tale diritto non viene riconosciuto e nessuno deve nulla all’altro a titolo di mantenimento.
Diversa, invece, sarebbe l’ipotesi dell’annullamento del matrimonio che, in parole povere, si distingue dal divorzio in quanto mentre quest’ultimo mette la parola fine ad un vincolo coniugale che, quando è sorto era giuridicamente efficace e lo è stato fino al suo scioglimento; l’annullamento invece mina, all’origine, la validità del matrimonio stesso.
Un’alternativa che potrebbe sembrare, in prima battuta, allettante, soprattutto se si considera che l’annullamento sottrae i coniugi agli oneri che comporta, in molti casi, il divorzio, primo fra tutti quello di dover mantenere – anche a vita – il coniuge economicamente più debole, visto che la rigorosa conseguenza dell’annullamento di un matrimonio dovrebbe essere questa: i coniugi dovrebbero considerarsi come se non fossero mai stati uniti dal vincolo coniugale ed i figli come illegittimi.
La legge, tuttavia, tempera questo rigore, prevedendo, ad esempio, che i figli siano comunque considerati figli legittimi (salvo il caso di bigamia o incesto), ovvero nel caso in cui entrambi i coniugi erano in buona fede al momento della celebrazione, che il matrimonio produca i suoi effetti fino alla sentenza che dichiara la nullità, nonché che al coniuge più debole economicamente possa essere garantito un mantenimento (seppur per un periodo non superiore a tre anni); ancora, in caso di buona fede di uno dei due coniugi e di malafede dell’altro, il Codice Civile sancisce che quest’ultimo riconosca una congrua indennità al primo, che dovrà comprendere, comunque, una somma corrispondente al mantenimento per tre anni.
A tal proposito si ricorda una recente sentenza della Corte di Cassazione Civile, sezione I, n. 9484 del 18 gennaio 2013, con la quale è stato statuito che il matrimonio civile può essere annullato nel caso in cui uno dei due coniugi non abbia comunicato all’altro la propria devianza sessuale, la quale, manifestandosi anche in un momento successivo, renda impossibile lo svolgimento di un normale rapporto di coppia. In tal caso, al coniuge “ingannato” è stata riconosciuta un’indennità e anche un assegno periodico di mantenimento.
Ad ogni buon conto, i vantaggi, comunque, correlati ad una sentenza di annullamento del matrimonio rispetto al divorzio, nel tempo, hanno attirato l’attenzione di molti, dando luogo a una moltitudine di richieste in tal senso, molte delle quali, tuttavia, sono state respinte dalle Autorità competenti, che, spesso, le hanno considerate dei meri escamotages.
L’annullamento del matrimonio, infatti, può essere concesso dal Tribunale, solo se ricorrono precisi ed eccezionali motivi e presupposti previsti o dalla legge civile, ovvero anche dal codice canonico, nel caso di matrimonio concordatario.
Si tratta di una materia che assume molteplici sfaccettature a seconda del tipo di rito con cui è stato celebrato il matrimonio, che è impossibile trattare in questa occasione poiché si creerebbe troppa confusione di concetti, ma che sarebbe molto interessante affrontare qualora qualche lettore dovesse sottoporre alla nostra attenzione la sua esperienza, dandoci in questo modo dei punti di riferimento da cui partire.